Bisognerà aspettare l’esito delle elezioni siciliane per sapere se la destra italiana andrà unita (e quanto) o divisa (e quanto) alla consultazione generale della primavera del 2018. In Sicilia, infatti, si sperimenta, attorno alla candidatura Musumeci, un’intesa unitaria delle tre sigle del polo: Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia.
Se il risultato sarà positivo, cresceranno le chances di una grande alleanza nazionale, accadrà il contrario in caso di sconfitta.
Molto dipenderà anche dalla legge elettorale con cui si andrà al voto: se consentirà alleanze formali o rinvierà tutto al responso delle urne.
Somma competitiva
Nel frattempo, i sondaggi e i pareri degli analisti attestano la qualità numericamente competitiva della somma dei suffragi che la destra potrebbe raccogliere nella competizione a tre con un Movimento5Stelle stralunato e con un Centrosinistra, al momento, tutt’altro che monolitico.
L’impressione è tuttavia che le componenti della destra si stiano cercando per ottenere, ciascuna per sé, la posizione migliore sia in caso di convergenza, sia in caso di opzione solitaria.
Tutto questo determina un clima di incertezza in cui la nota dominante è quella di una diffidenza di tutti verso tutti che può essere aggirata solo in base ai calcoli di convenienza di ciascuno.
Una mutazione strategica
Poiché, comunque, la ricerca unitaria è universalmente proclamata, è utile tentare di andare a vedere le carte dei soggetti coinvolti per mettere a fuoco ciò che spinge all’unità e ciò che divide, e quanto siano componibili le posizioni dei contraenti. Che, nel corso della legislatura, si sono notevolmente divaricate.
La Lega Nord con la guida di Matteo Salvini ha compiuto un’autentica mutazione strategica. Da agenzia di patrocinio della “secessione sociale” del Nord è passata – se si consente l’espressione paradossale – a fautrice di una “secessione nazionale” dell’intera Italia dall’Europa.
Questa trasformazione (osteggiata dal vecchio Bossi e, per questo, accantonato) ha comportato l’assorbimento di un’elevata dose di elementi di nazionalismo e, quindi, di abbandono o superamento dell’idea della “Padania libera”, soppiantata dalla quella della liberazione dell’intera Italia dall’oppressione di Bruxelles (i burocrati), di Francoforte (l’euro di Draghi) e di Berlino (il dominio di Angela Merkel).
Non passa lo straniero…
Il cambiamento è avvenuto mediante l’assorbimento dei temi e dei metodi dei movimenti “sovranisti” che, intanto, sono cresciuti nei diversi paesi del vecchio continente, a partire dal Front National di Marine Le Pen (sconfitto in Francia da Macron) per finire alla Alternative fur Deutschland, ultimamente affermatasi in Germania.
Nel bagaglio politico di questa scelta è incorporato – insieme ad un di più di linguaggio sommario e di toni truculenti – un pacchetto di “ideali” che recitano (per usare il linguaggio nazionalista) il “non passa lo straniero” verso tutto ciò che viene da fuori (immigrazione) o che minaccia di crescere da dentro (lo ius soli). Con il corollario antiislamico, antirom, anticontaminazione dei “valori tradizionali” di cui alle esibizioni del leader e delle voci che ne amplificano il rumore sui media.
Bisogna anche aggiungere che, in virtù delle collaborazioni a livello locale, questa Lega ha realizzato una certa attrazione verso quegli esponenti di Forza Italia che sono tributari di un sostegno leghista. Come è il caso del governatore della Liguria Toti, sempre presente sui palchi “verdi”.
“Se si candida Di Maio”
Nella scia della Lega di Salvini si pone Giorgia Meloni con i suoi Fratelli d’Italia, che raccoglie una parte dei reduci della Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, e promotrice, prima della Lega, delle tesi “sovraniste”, cominciando dalla sovranità monetaria.
Per quanto fortemente minoritaria rispetto ai due più grossi contraenti – FI e Lega – la funzione di FdI si manifesta nell’ambizione di esserci e di contare. Come le è riuscito in Sicilia, dove ha ottenuto di indicare il candidato alla presidenza della regione.
Una funzione di mastice di cui si avvale talvolta lo stesso Berlusconi quando si riferisce con piglio galante alla “signora Meloni”. La quale non manca di corrispondere, dichiarando la propria disponibilità a candidarsi come Presidente del Consiglio, sia pure con la chiosa ironica: «Se si candida Di Maio»…
Berlusconi otre gli acciacchi
Ma il vero antagonista-interlocutore della partita è ancora e sempre Berlusconi. Ne ha passate tante e non riesce a mascherarne i segni sul volto che ora appare plasticamente rimodellato.
Non stacca però la spina; e, anzi, si ripropone come l’unico, vero, indispensabile capo della destra. La sua forza elettorale è pressoché dimezzata e il suo appeal personale è menomato dalla condizione di incandidabilità non meno che, fisiologicamente, dagli acciacchi della vecchiaia, per quanto ben portati.
Berlusconi ha consumato la legislatura a ricostruirsi, coltivando la speranza di una riabilitazione da parte della Corte di Strasburgo e poi ritessendo una rete di contatti a livello europeo, in particolare con la signora Merkel, un tempo contrastata e dileggiata.
L’elezione del fedele Antonio Tajani a presidente del Parlamento Europeo ne è il segno più rilevante.
La tattica del pugile
Sul piano interno, poi, ha adottato la tattica dei pugili in difficoltà, abbracciando l’avversario per limitare i danni. Che pure ha dovuto subire con la separazione del suo ex successore designato, Angelino Alfano.
È la storia ben nota del “patto del Nazareno” con il Pd di Renzi, il cui effetto si è protratto ben oltre la sua rottura formale avvenuta per l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella.
In Forza Italia c’è, anzi, un settore che auspica un ritorno alla collaborazione col Pd in un governo di larghe intese.
Quanto ad Alfano, già cancellato dalla successione per mancanza di “quid” e divenuto spalla indispensabile dei governi a guida Pd, appare oggi in bilico tra il restare nell’alveo della collaborazione a sinistra o imboccare la via del ritorno a casa, come sembra preferire il neocoordinatore del Ncd, Maurizio Lupi.
Contro i populisti, ma…
Intanto, mentre ancora non sono definite le scelte, oggi Berlusconi si avventura a dichiarare che «il centrodestra deve vincere perché sarebbe una iattura per l’Italia se prevalessero forze definite populiste»…
Affermazione che un commentatore attento come Massimo Franco ha giustamente girato a Matteo Salvini i cui carati di populismo nessuno mette in dubbio. E non solo per la gioia manifestata per il successo dei populisti tedeschi.
A Berlusconi, tuttavia, tutto si può chiedere fuorché la coerenza del rigore ideologico.
Nel 1994, quando discese in campo, compì il capolavoro di condurre alla vittoria non una sola ma due alleanze con due soggetti diversi e distanti: al Nord il “polo delle libertà” con la Lega di Bossi e al Sud il “polo del buon governo” con un Gianfranco Fini in via di redenzione dal marchio neofascista.
In fondo, a guardar bene, l’operazione in corso, se riuscisse, non sarebbe diversa da quella del 1994. Epperò con molte altre differenze, cominciando dal fatto che stavolta l’Italia non sarebbe divisa in due parti, come allora, ma in partes tres come la Gallia di Giulio Cesare.
Il che garantisce alla destra, ma un po’ a tutti, che divisi si perde; e allora non resta che attuare l’antica via di fuga, quella che ai suoi tempi usò il sindacalista Pierre Carniti per fotografare la condizione penosa dell’unità sindacale: uniti si finge.