Non più fake news ma information disorder, in modo da descrivere tutte le sfaccettature di questo prisma complesso che è la comunicazione oggi. Questo è il passaggio che propongono Claire Wardle e Hossein Derakhshan in un rapporto pubblicato dal Consiglio d’Europa dal titolo – appunto – «Information Disorder Toward an interdisciplinary framework for research and policymaking».
Il problema secondo gli autori è che il tema della «lotta» contro le fake news sia mal posto sin dalla sua definizione lessicale. Il termine fake news, tanto usato sia dai giornali sia dai poteri forti globali, è dal punto di vista degli autori – e come dar loro torto – un ombrello che abbraccia molti aspetti del comunicare umano (e non umano).
Un articolo pubblicato ad agosto di quest’anno ha studiato 34 articoli accademici pubblicati dal 2003 al 2017 sul tema fake news, facendo emergere una moltitudine di significati e di contesti diversi: ci sono la satira e la parodia, i contenuti diffusi in maniera imprecisa per leggerezza o per fretta, ci sono poi i veri e propri impostori, che fabbricano contenuti appositamente falsi per screditare taluno o talaltro. E ancora, va ricordato che il termine fake news comprende non solo i fatti falsi, ma anche le correlazioni errate, non basate su prove sufficienti. Siamo davanti a un inquinamento dell’informazione, per usare l’espressione degli autori.
Mis-information, dis-information, mal-information
La proposta è di spostare l’attenzione dal dilagare delle notizie errate al problema della mancanza di fiducia nel giornalismo e della qualità delle fonti. «Ci si fida oggi più dei propri familiari e amici che degli esperti del New York Times», spiegano gli autori. Secondo i dati pubblicati a settembre 2017 al BBC World all’interno di una survey condotta su 18 paesi, il 79% dei rispondenti si sarebbe detto preoccupato di leggere notizie false.
In un clima in cui la credibilità degli organi di informazione sembra minata alle fondamenta diventa necessario anche imparare a distinguere fra diversi tipi di informazione. Per questo gli autori distinguono fra mis-information, dis-information e mal-information. La «misinformazione» si ha quando un’informazione falsa viene veicolata in rete senza dolo, ma solo – appunto – per leggerezza, per un’errata comprensione dei fatti o delle dinamiche in atto. Poi vi è la «disinformazione», che invece include dolo da parte di chi la produce e/o di chi la diffonde. Infine, la «malinformazione» si ha quando vengono diffuse delle notizie vere, ma per dolere, per creare dissapori e mettere zizzania. Sono inclusi in questo gruppo tutti gli episodi di hate speech e i leaks.
Mark Zuckerberg ha parlato inoltre di Disinformatzya, per indicare un’informazione disegnata apposta per seminare il dubbio e aumentare la sfiducia nelle istituzioni. Sempre Facebook inoltre, ci tiene a distinguere fra false news e false amplifiers, entro cui si inseriscono gli account fasulli.
Informarsi sui social
Gli autori individuano due aspetti di vulnerabilità dell’informarsi tramite social network: primo, essendo i social aggregatori di notizie da diverse fonti, il lettore finisce per focalizzarsi più sulla storia che sulla fonte. E se già è raro che venga fatto fact-checking, è ancora più raro che si faccia source-checking.
Il secondo aspetto di vulnerabilità è che i lettori sui social sono «pilotati» nella lettura delle notizie da ciò che amici e contatti hanno letto e condiviso, o da ciò che gli algoritmi hanno deciso di selezionare. A quest’ultimo aspetto possiamo aggiungere anche un’ulteriore forma di condizionamento: entrando in contatto con la notizia sui social non interiorizziamo solo un contenuto, ma anche l’emozione di chi ce lo sta proponendo tramite un post o un tweet.
Prima di parlare pensa!
Il punto di forza del rapporto sono però le indicazioni programmatiche, gli spunti d’azione che offre, anzitutto per giornalisti e comunicatori. Fra queste raccomandazioni compare anche il «silenzio strategico», da intendersi non come censura, ma come un atteggiamento di maggiore cautela in caso di dibattiti molto delicati. Il che pone importanti interrogativi etico-professionali per chi fa informazione.
Accanto al silenzio strategico, secondo gli autori è fondamentale impegnarsi a fare giornalismo anche sul tema dell’informazione, in modo che diventi argomento di discussione pubblica. Importante è anche migliorare la qualità di titoli e sottotitoli, che sono la prima cosa che un utente sui social legge. Andrebbe poi reso abituale il debunking delle fonti e dei fatti. In questo senso il rapporto propone a pagina 86 e seguenti, una lista delle più importanti iniziative di fact-checking e debunking europee. Per l’Italia il rapporto cita due esperienze: Pagella Politica e Agi Fact-checking.
L’informazione non veritiera iniettata come un veleno nella rete a scopi politici – di cui il rapporto dà una serie di esempi – da Macron a Trump, dalla Brexit a papa Francesco – è efficace perché ben congegnata e risonante con gli aspetti emozionali dell’uditorio a cui si rivolge. «Le teorie del complotto sono efficaci proprio perché sono basate su un’ottima narrativa. Riescono a muovere le paure più profonde. E in questo gioco la veridicità delle affermazioni diventa inifluente, a meno che non si riesca a scalzare la storia falsa con una storia vera altrettanto potente sul piano emozionale».
Non dimentichiamo la televisione
Non da ultimo – continuano gli autori – non possiamo ignorare la potenza che ha ancora oggi la comunicazione televisiva. Sebbene si parli di fake news prevalentemente legando il problema a Internet e ai social media, in realtà il primo media affetto da information disorder è la televisione. Secondo i dati Istat relativi al 2016, il 92,2% degli italiani dai 3 anni in su guarda abitualmente la televisione e fra questi l’86,7 % lo fa con frequenza giornaliera.
La televisione si vede abitualmente in tutte le fasce di età, ma i telespettatori sono più numerosi tra i giovanissimi e gli anziani e, in particolare, tra i 6-14enni e i 65-74enni (per entrambi pari a circa il 96%). Sempre nel 2016, «solo» il 56,1% della popolazione di 3 anni e più dichiara di utilizzare il computer e il 63,2% di quella di 6 anni e più afferma di fare uso di Internet.
Uscire dalla bolla
Concetto importante nelle varie forme di disinformazione è il concetto di polarizzazione e di bolla, analizzati nel report. Come è noto, soprattutto nei social media ci si tende a chiudere in comunità omogenee, o bolle, in cui si passa il tempo a darsi ragione a vicenda e a polarizzare il proprio punto di vista senza un vero scambio con chi la pensa diversamente.
A questo proposito gli autori propongono una serie di esempi di iniziative editoriali che cercano di far uscire i lettori dalle bolle. Un primo esempio è quello di Blue Feed, Red Feed del Wall Street Journal, che compara come le notizie vengono veicolate su Facebook da conservatori e liberali negli Stati Uniti intorno a 8 temi caldi: il Presidente Trump, le armi, l’immigrazione, la salute, aborto, Isis, questioni di budget e giustizia. Ovviamente Blue Feed, Red Feed non possiede account Facebook o twitter.
Un secondo esempio – questa volta europeo – viene dal Guardian, con Burst your bubble, letteralmente «fai scoppiare la tua bolla», che si definisce come «la guida settimanale del Guardian agli articoli conservatori che vale la pena di leggere per espandere il proprio punto di vista». Un terzo esempio è Outside Your Bubble di BuzzFeed, che aggrega notizie dalle diverse bolle, e un quarto è rappresentato da AllSides, che non è un’appendice di un giornale ma un sito web appositamente creato per aggregare notizie da fonti appartenenti a diverse «bolle».
L’articolo è stato pubblicato sul sito web Scienza in rete lo scorso 27 novembre 2017.