In politica, si richiedono lucidità di analisi ed etica della responsabilità ed esse, a loro volta, prescrivono freddezza, distacco da sentimenti e risentimenti.
Una disposizione di spirito che, nel nostro caso, deve presiedere al giudizio circa la rottura di Renzi con il Pd. Rottura annunciata e, in verità, da gran tempo praticata nei comportamenti. Al modo di un partito nel partito.
Un giudizio distaccato per due ragioni.
Primo: essendo manifesta l’incompatibilità, reiterare una coabitazione forzosa avrebbe avuto solo l’effetto di inasprire inutilmente i rapporti personali e politici.
Secondo: in prospettiva si può e si deve sperare che la certificata impossibilità di abitare uno stesso partito non pregiudichi l’auspicabile cooperazione tra soggetti distinti iscritti nel campo del centrosinistra e comunque alternativo alla destra.
Dunque, non è il caso di stracciarsi le vesti. Ciò detto, tuttavia, non possiamo tacere un severo giudizio a cavallo tra etica e politica a fronte dell’ostensione del “partito dell’io”. Cominciamo dal fondo: il carattere palesemente pretestuoso dell’asserito deficit di rappresentanza dei renziani (o addirittura dei toscani) nella squadra di governo. Non solo la cosa è smentita dai numeri e dalle quote, ma:
1) Renzi ha più e più volte asserito che egli non avrebbe chiesto «neanche uno sgabello» per sé e i suoi (ma quanto valgono le parole?);
2) semmai i renziani, per un minimo di coerenza, avrebbero dovuto di loro iniziativa tenersi tutti fuori da un governo sostenuto dai 5 stelle, essendo stati loro a opporsi recisamente da sempre a quella collaborazione (curiosa la simultaneità con cui tutti i seguaci hanno avuto la medesima folgorazione/conversione del capo);
3) essi sono entrati allegramente e volentieri nel Conte 2 in rappresentanza di un partito, il Pd, avendo già in animo di lasciarlo;
4) solo un allocco può credere alla favola che, oggi, la scissione possa configurarsi come una separazione consensuale e che, di riflesso, essa non rappresenti un oggettivo fattore destabilizzante il governo voluto e, in certo modo, imposto da Renzi.
Ma dobbiamo risalire indietro. Oggi Renzi può portarsi via un manipolo di parlamentari semplicemente perché, facendo ostruzionismo per un anno contro la convocazione di un congresso, ha potuto scegliere nominalmente la larga maggioranza di deputati e senatori Pd a lui fedeli. Esattamente in vista di questo straannunciato congedo. Come se partito e parlamentari fossero cosa sua. Per di più a valle della disfatta del voto delle politiche.
Del resto, nelle stesse ore nelle quali si discuteva della formazione del Conte 2, in un’intervista al Sole 24 ore, Renzi proclamava che, se non si fossero fatte politiche per le imprese, il governo non avrebbe avuto i «nostri» voti. Ancora: senza di «noi» (renziani) non c’è governo. Appunto, un partito nel partito.
Per altro, niente di nuovo. Da quando aveva lasciato la guida del Pd, Renzi e i suoi sono sempre stati un corpo a sé. Conosciamo il suo mantra: la minoranza interna al tempo della sua segreteria gli avrebbe fatto una guerra sistematica, «contrastando il Matteo sbagliato». Niente di più infondato.
Nella vicenda del Pd nessun segretario è stato depositario di un potere personale pari al suo (gli analisti parlavano di «partito personale»); la minoranza che faceva capo a Bersani è stata sostanzialmente spinta fuori da un partito non contendibile. Eloquente il fuori onda di un Del Rio basito che confidava come Renzi non avesse fatto una sola telefonata per scongiurare la scissione. A caldo, da lui così chiosata: «si mettano il cuore in pace: il Pd c’era prima e ci sarà anche dopo».
Infine, la recente stagione della segreteria Zingaretti. Il quale – va riconosciuto – ha fatto invece l’impossibile per preservare l’unità del partito. Una tensione inclusiva che gli ha procurato la nomea di segretario irenico e irresoluto.
La verità è la seguente: Renzi è per indole incapace di stare a una regola comune e di collaborare lealmente quando non è lui al comando; egli, come certificato dall’epilogo che lo vede impegnato a includere pezzi di FI, aveva un’idea del profilo del Pd affatto diversa da quella del Pd nel solco dell’Ulivo: major party di un centrosinistra plurale, largo e inclusivo, nitidamente alternativo al centrodestra.
Dunque, facciamocene una ragione. Non drammatizziamo. Ma, alla luce dell’approdo presente, siamo in condizione di mettere a verbale anche un giudizio più argomentato sul passato.
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