Le grandi manifestazioni che il 28 ottobre hanno visto scendere in piazza centinaia di migliaia di persone, per chiedere la fine dei bombardamenti su Gaza, costituiscono un segnale da prendere sul serio e su cui riflettere.
Tra governi occidentali e opinione pubblica
Le cronache dicono che imponenti cortei si sono formati a Londra (solo là, si parla di 300.000 partecipanti!) e a New York, ma anche a Los Angeles, a Berlino, a Stoccolma, a Copenaghen a Roma, a Marsiglia e perfino in Australia, a Sidney. Per citare solo quelle svoltesi nell’ambito del mondo occidentale (in quello islamico sono state ancora più numerose e violente).
In alcuni casi – come in Francia e in Germania – i dimostranti hanno sfidato un esplicito divieto delle autorità. E a New York almeno 200 persone sono state arrestate nel corso del gigantesco sit in organizzato al Grand Central Terminal da un’associazione ebraica pacifista.
Stranamente, in Italia, solo pochi giornali hanno dato notizia in prima pagina di questa protesta a livello internazionale e, se mai, si sono concentrati su quella svoltasi a Roma (anch’essa peraltro più consistente del previsto per la partecipazione inattesa di 20.000 manifestanti).
A questa sì, alcuni quotidiani hanno dedicato il titolo di prima pagina, come quello di «Libero»: «Gli inutili idioti di Hamas», e quello de «Il Tempo»: «A Roma sfila l’odio». Commenti evidentemente poco favorevoli e che, sia pure in forma estrema, sono significativi dell’atteggiamento assunto su questa guerra dalla grande maggioranza dei giornali italiani, sostanzialmente in linea con quella del nostro esecutivo.
In ogni caso, il fenomeno è degno di attenzione. Era forse dai tempi della guerra del Vietnam che non si registrava una così forte tensione fra le posizioni dei governi e quella di una parte consistente dell’opinione pubblica, di cui questa massiccia mobilitazione è come «la punta dell’iceberg».
Ma quali sono le ragioni che hanno spinto la maggior parte dei paesi occidentali – primi fra tutti gli Stati Uniti – a respingere o comunque a non votare la risoluzione presentata all’Assemblea generale dell’ONU, e poi approvata col voto favorevole di 120 Stati, in cui si condannavano tutti gli atti di violenza contro i civili sia israeliani che palestinesi e si chiedeva una «immediata tregua umanitaria», con la fine dei bombardamenti e l’accesso nella Striscia di Gaza degli aiuti per la popolazione?
Primo equivoco logico
Per quanto riguarda l’astensione dell’Italia, la Meloni l’ha giustificata osservando che in quella mozione non si menzionava la responsabilità di Hamas nell’attacco del 7 ottobre, di cui la reazione di Israele è stata la conseguenza. Insomma, il comportamento di Israele non si può valutare senza tenere conto dell’aggressione che ha subìto.
Una spiegazione che ricalca quella data alcuni giorni prima dal portavoce della Commissione europea, Eric Mamer, a proposito dell’asimmetria tra la valutazione della Commissione sui metodi di guerra di Putin e quelli di Israele.
Rispondendo a chi gli chiedeva se valesse anche nei confronti di ciò che sta accadendo in Palestina il commento che la presidente Ursula von der Leyen fece nell’ottobre 2022 – quando definì crimini di guerra e atti di terrore gli attacchi russi a infrastrutture civili ucraine e il taglio di acqua, elettricità e riscaldamento ai civili – , Mamer ha ricordato che quel commento «è stato fatto in un contesto molto specifico, dove c’è stato un attacco non provocato da parte di un Paese, per di più membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, contro un vicino pacifico».
Su questa linea anche la grande stampa che, in Italia (esemplari gli editoriali di Paolo Mieli sul «Corriere della sera» del 24 ottobre e di Ezio Mauro su «Repubblica» del 30 ottobre), accusa i simpatizzanti dei palestinesi e in particolare i manifestanti del 28 ottobre di dimenticare l’atroce massacro di cui Hamas si è reso responsabile nei confronti degli innocenti civili israeliani e che ha determinato l’inizio della guerra.
E tuttavia, alla base di questa motivazione c’è un evidente errore logico. Si sovrappongono e si confondono due questioni che sono ben distinte: una è quella della causa del conflitto, l’altra è quella del modo di condurlo. Il diritto internazionale si occupa della prima quando condanna l’aggressore – che in questo caso è sicuramente Hamas –, e della seconda quando dichiara in ogni caso inaccettabili le violenze nei confronti dei civili.
Anche su questo punto il partito armato islamico è chiaramente responsabile per le 1.400 persone innocenti massacrate il 7 ottobre; ma, sotto questo secondo profilo, lo è anche lo Stato ebraico per l’inaudito trattamento inflitto alla popolazione palestinese, privando due milioni e mezzo di persone di acqua, di elettricità , di medicinali, e sottoponendoli a un incessante bombardamento che, oltre a distruggere il 30% delle abitazioni civili, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ha già provocato, fino ad ora 7.000 morti, di cui il 40% bambini.
Se la mozione dell’ONU fosse stata sulle responsabilità della guerra, la mancata menzione dell’aggressione di Hamas sarebbe stata un buon motivo per non votarla. Ma essa chiedeva solo la cessazione di questa violenza sistematica sulla popolazione. Non prendere posizione su questo ha voluto dire – e non solo da parte dell’Italia – una sostanziale accettazione di quanto sta succedendo.
Una responsabilità non solo giuridica, ma anche etica, che – anche al di là della votazione all’ONU – i governi occidentali si stanno assumendo con il loro silenzio. Né possono valere a colmarlo le loro generiche raccomandazioni ad Israele di «non esagerare» e di operare sempre nel rispetto delle regole internazionali di guerra e dei diritti umani.
Come mai non le hanno rivolte a Putin, che invece è stato (giustamente) bollato per le violenze che – anche a prescindere dal suo ruolo di aggressore – aveva già compiuto e continuava imperterrito a compiere contro i civili?
Così, ora, queste timide esortazioni non possono non suonare come una tragica ironia, quando la sistematica violazione di quelle regole e di quei diritti è sotto gli occhi di tutti, senza che mai l’Occidente ne abbia preso atto per opporsi fermamente ad esse. E che ad aggredire sia stato Hamas non è certo una giustificazione di questa tacita complicità con un comportamento disumano, com’è quello di Israele a Gaza.
Secondo equivoco logico
Questo silenzio viene soprattutto da Stati che lo giustificano spiegando che Israele è una democrazia e dev’essere sostenuta contro il fanatismo e il fondamentalismo. Ma anche confondere la legittimità del regime giuridico-politico di uno Stato con una automatica giustificazione delle sue azioni militari costituisce un grave salto logico.
È senz’altro vero, infatti, che Israele è una democrazia, e lo dimostra la fortissima opposizione interna che da mesi stava cercando di impedire al premier Netanyahu di cambiare la Costituzione per rafforzare il suo potere e sottrarsi all’accusa di corruzione che grava sul suo capo.
La sciagurata iniziativa di Hamas, da questo punto di vista, gli ha fatto un favore, facendo passare in secondo piano il dibattito democratico e unendo il paese nella lotta contro il nemico esterno.
Ma, da parte dell’Occidente, assumere lo Stato ebraico come l’emblema della democrazia avrebbe dovuto comportare l’impegno di obbligarlo a comportarsi come tale anche verso l’esterno, in conformità con i valori che sono alla base della democrazia.
Altrimenti – ed è quello che sta avvenendo – il solo risultato è di screditare la stessa democrazia, mettendo sotto gli occhi di tutti che, in nome di essa (come continua a ripetere e a fare Netanyahu), è lecito uccidere e schiacciare degli innocenti.
È una buona immagine da proporre ad un mondo islamico – e in generale, ai paesi del Sud del pianeta – nel loro faticoso cammino verso forme istituzionali e politiche più evolute? Quali vantaggi porterà alla loro crescita in questa direzione la campagna di spietata oppressione che il «democratico» Stato ebraico, col più o meno esplicito consenso delle democrazie occidentali, sta conducendo verso i palestinesi?
Terzo equivoco logico
Da parte dei sostenitori della politica di Israele si insiste continuamente sulla tesi che alla base delle contestazioni nei confronti di essa ci sia un mai del tutto superato sentimento antisemita. La sua esistenza, purtroppo, è innegabile. L’avanzata, in questi ultimi anni, dei partiti della destra europea, alcuni dei quali si richiamano più o meno esplicitamente all’eredità del nazismo, non è, da questo punto di vista rassicurante.
Ma che nelle manifestazioni a favore della Palestina la vera posta in gioco non sia l’antisemitismo lo dimostra il fatto che i partecipanti avevano le più diverse provenienze culturali e politiche. Tanto che quella di New York, come segnalavamo prima, era organizzata e animata da un’associazione ebraica! E basta averle seguite per rendersi conto che il bersaglio di gran lunga prevalente dei manifestanti non sono stati gli ebrei, ma la politica di Israele.
E non si possono né si devono confondere le due cose. Proprio la stima per il grande popolo ebraico e la condanna, senza «se» e senna «ma», delle persecuzioni a cui è stato sottoposto nella storia, fino alla Shoah, ci impediscono di identificarlo con uno Stato che non teme di uccidere o affamare i bambini per perseguire i suoi obiettivi strategici di “difesa”.
Anche questo è un equivoco che si cerca di avallare da parte di molti commentatori, bollando come «antisemita» ogni critico di Israele. Su questa linea, Salvini ha addirittura definito «razzista» Amnesty International! Un equivoco, purtroppo, che avrà, come gli altri due analizzati prima, un effetto devastante. A forza di identificare gli ebrei con la politica di Netanyahu, si rischia di far ricadere sui primi l’ostilità che merita la seconda e di alimentare così un sordo antisemitismo.
Forse è troppo pretendere dalla politica che segua la logica. Ma anche per la politica è pericoloso abbandonare il terreno della razionalità. E quelle che abbiamo segnalato sono offese alla ragione, coperte dagli slogan e dalle fake news, che anche «l’uomo della strada», se appena si mette a riflettere, può smascherare. E a noi non resta se non sperare – per la salvezza di tanti sventurati palestinesi allo stremo delle forze – che prima o poi anche i nostri governanti se ne rendano conto.
- Dal sito della pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 3 novembre 2023
Do the numbers in the protestations reflect much more than: 1. There are 1.3 billion Muslim in the world, millions in Western Europe and North America too. There are altogether about 16 million Jews, about half in Israel.
Even if just 0.1% of the 1.3 billion are radicalized and activists, that would amount to 1.3 million – ready to march, organize etc.
And with leisure time so heavily subsidized for teenagers and college students, and the Internet – millions can crowd out the so called “social media” (with anti-social propaganda). The drastic expansion of so called “institutions of higher learning” which have turned to anything but – having given up on meritocracy – have brought about the lethal coalition of below mediocre faculty with equally below mediocre students. The consequence has been production of jargons and certificates backed by hot air, which helped creating the “Antisemites around the world – unite.”
Add to this that the West forgot that “free speech” stood for debates, and not subsidized echo chambers, and forgot too the limits on “free speech”: the US has on its books the prohibition of crying “fire” in crowded places – and that the Internet has managed to create such places in short periods of time, creating mobs ready to lynch – and not only in Dagestan.
For those interested to take a deeper look, Settmana just published by short piece on Harvard; Washington based Law and Liberty published at the beginning of the year my “You cannot educate anti-semitism away” and American Affairs published “How to relink 7 billion people” few years ago (by now we are alsmot at 8 billion)
Condivido la ratio dell’articolo, cioè il voler stigmatizzare l’eccessivo sbilanciamento occidentale in favore di Israele e la sottovalutazione della macelleria in atto a Gaza. Però mi preme fare qualche osservazione. In relazione al “primo equivoco” si deve considerare che pur non essendo giustificata Israele dal 7 ottobre non vi sono modalità possibili di intervento a Gaza che escludano perdite di civili. Infatti il parallelo tra Ucraina e Gaza non sta in piedi. Putin combatte contro un esercito regolare che ordinariamente non si mischia coi civili mentre Hamas fa l’esatto contrario: si mescola ai civili per proteggersi. Sicché colpire Hamas comporta inevitabilmente perdite civili. Ovviamente questa valutazione esula dalla accettabilità o meno delle dette perdite. Personalmente ritengo inaccettabili le perdite che vengono stimate a Gaza.
Quindi la questione vera non è sulle modalità di intervento quanto sulla sua opportunità. Ciò pensando anche alla exit strategy che sarà un capitolo dolente quanto quello dell’intervento.
Non si può che apprezzare lo sforzo (come quello dell’articolo) volto a “smascherare” le riletture “propagandistiche” che circolano ormai insistentemente attorno alla complessa situazione mediorientale. I media ne sono pieni e il mondo politico non fa che avvalorarli (forse perché privo di visioni e di strumenti reali per intervenire) contribuendo così alla polarizzazione del discorso tra gli opposti schieramenti (se si guarda online il canale Al-Jazeera per due minuti con le immagini ossessive delle distruzioni a Gaza oppure si dà un rapido sguardo ai media vicini ad alcuni partiti di destra europei affascinati dalla “politica” attuale governo israeliano ci si rende rapidamente conto di tale polarizzazione propagandistica). In periodo di guerre è difficile mantenere la razionalità e la lucidità necessarie per interpretare conflitti e fenomeni storici tanto complessi come quello mediorientale. La propaganda non fa che alimentare il conflitto e (a mio modesto avviso) anche esacerbare il discorso pubblico che mi sembra abbia raggiunto anche in Occidente livelli di violenza verbale e di “autismo” nei confronti di chi la pensa diversamente che sono
davvero preoccupanti. E questo è uno degli aspetti che più mi preoccupa per l’avvenire, al di là dell’esito dell’attuale guerra che sta creando tanto dolore, paura e morte tra civili di entrambe le parti. Come ricostruire dopo il conflitto anche le relazioni umane sarà una sfida davvero storica oltreché ardua
Mi trovo perfettamente d’accordo con le sue osservazioni. Peraltro l’articolista ben la pone su temi logici che è sconfortante vedere come vengano continuamente disillusi dal mainstream che continua a trattare il “gregge” come completamente decerebrato. Nel secolo in cui si fa largo l’intelligenza artificiale è notevole verificare come il controllo si voglia mantenere ancora giocando sulla stupidità naturale. Voglio sperare che questa modalità prima o dopo ci abbandoni; sarà il segno che vi è una maggiormente attrezzata coscenza collettiva e che viene come tale considerata da chi orienta la comunicazione. Si abbia pazienza: se può essere logico accettare di giustificare la reazione Israeliana come lecita, giusta, proporzionata, azione generata sulla base delle azioni vergognose di Hamas, non si capisce tuttavia come queste ultime in via assoluta non possano trovare una riconduzione alle esecrabili, illecite, ingiuste politiche israeliane in termine al confinamento ed alla vessazione di un intero popolo. C’è qualcosa che non torna. In una situazione analizziamo ed agiamo andando indietro di uno step ed è assolutamente naturale fare in questo modo, nell’altra non si può fare; non si può andare a vedere il prequel. C’è una evidente spirale di violenza che pare inarrestabile; essa per ovvietà colpisce sempre i più deboli, da ogni parte. Vogliamo concluderla cercando di comprendere e gestendo la complessità, oppure l’intenzione è guardare sempre e solo l’ultimo miglio perché fa comodo a qualcuno? Se si vuole risolvere non si può non gestire la complessità con onestà intellettuale.