La flebile voce della democrazia

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joe biden

AP Photo/Evan Vucci (Associated Press/LaPresse)

Il primo dibattito tra Joe Biden e Donald Trump, organizzato dalla CNN in Georgia, si è deciso nei primi minuti. Quando il presidente in carica ha preso la parola, ogni spettatore ha sentito la fatica dei suoi 81 anni, della vita che gli è toccata in sorte e della carriera di politico di professione che si è scelto.

Chiunque avesse dubbi sulla tenuta fisica di Joe Biden, sulla sua capacità di reggere altri quattro anni alla Casa Bianca, ha visto confermati i timori su una sua inadeguatezza. A me, però, quel parlare incespicato e quasi affannato ha fatto pensare non alla voce di un vecchio, ma alla flebile voce della democrazia e dei diritti in un’epoca urlata di violenza verbale e fisica.

Come le nostre democrazie

Joe Biden è vecchio e stanco, come le nostre democrazie dopo i vent’anni della rabbia, per citare il fondamentale libro di Carlo Invernizzi Accetti di cui torneremo presto a parlare. In fondo, non c’è un candidato migliore per incarnare le idee e le politiche che contrappone a Donald Trump.

Il dibattito non è stato un confronto tra due candidati, ma la rappresentazione della reale natura della contesa: l’assedio del tiranno al fortino sguarnito della democrazia.

Un candidato più giovane, vitale, con la battuta più pronta avrebbe semplicemente reso più difficile percepire la posta in gioco alle elezioni del 5 novembre. Che non è la scelta tra Biden e Trump, ma tra l’imperfetta democrazia liberale dei diritti, delle politiche redistributive, dell’internazionalismo e una follia predatoria, rapace e violenta in politica interna e il cinismo masochistico in politica estera.

Biden incespica, non si capisce cosa dice, confonde sempre – sempre – milioni (millions) con miliardi (billions).

Non ha una risposta pronta quando gli chiedono conto della sua età, si mette a elencare i successi di politica industriale. Come dire: guardate quello che faccio, non come lo racconto.

È il tentativo, malriuscito, di ricordare che già nel 2019 Biden era considerato anziano, poco lucido, inadeguato, ma poi ha fatto cose più rilevanti lui in quattro anni che Barack Obama in otto.

Trump rivela soltanto la sua natura e le sue ambizioni: inutile fare il fact checking alle sue affermazioni, l’intera narrazione di Trump è costruita su una premessa che lui considera indiscutibile e ovvia. Cioè che gli Stati Uniti fossero all’apice del loro successo – economico e politico – quando lui è stato costretto a lasciare la Casa Bianca nel 2021 da un’elezione di cui non ha mai riconosciuto la legittimità. E che con Biden l’America sia sprofondata in un abisso economico, morale, geopolitico.

Nessun dato – tra i mille che si potrebbero citare – può scalfire questa convinzione trumpiana.

La vera sfida

A precisa domanda, Trump si rifiuta di prendere l’impegno a riconoscere il risultato elettorale di novembre 2024, qualunque sia.

Si dice pronto soltanto a rispettare l’esito di un processo equo e onesto, il che equivale a dire che non riconoscerà altro risultato che la sua vittoria, poiché da quattro anni ripete che le elezioni 2020 sono state truccate a favore di Biden (nessuna corte ha mai riscontrato un singolo elemento a favore delle tesi trumpiane, ricorda il presidente Democratico, anzi, Trump è sotto processo per aver tentato di ribaltare il risultato in Georgia).

La cronaca della discussione sarebbe deprimente, in particolare i momenti nei quali due anziani signori cercano di affermare la propria residua virilità rivendicando i propri risultati a golf o (nel caso di Trump) nei test di capacità cognitive ai quali Biden rifiuta di sottoporsi.

Non c’è dubbio alcuno che Biden sia stanco, fragile, appannato. Ma questa sua scarsa lucidità mi aveva colpito anche nel 2019. E Biden faceva gaffe e incespicava anche quando era l’anziano – già allora – vicepresidente di Obama dal 2008 al 2016. E poi ha vinto, ha superato candidati più giovani e più contemporanei come Cory Booker o Pete Buttigieg, e si è dimostrato più capace di costruire non soltanto una coalizione vincente ma anche una agenda politica efficace rispetto ai radicali Bernie Sanders o Elizabeth Warren.

Forse perché consapevole della sua senescenza incipiente, ha scelto una vicepresidente come Kamala Harris inattaccabile sul piano della biografia (figlia di immigrati, donna, nera, progressista ma dura sul crimine) ma impalpabile su quello politico. Finora nessuno ha preso sul serio l’ipotesi di una successione, con Kamala a sfidare Trump.

Sempre più fragile e incerta

Biden ha perso un dibattito che non poteva vincere, perché l’unico modo per battere Trump sul suo terreno è quello di diventare peggio di lui: più menzogne, più violenza, più assurdità (come quella di denunciare l’inflazione e annunciare tariffe doganali su tutti i beni, cosa che farebbe impennare i prezzi di ogni singolo prodotto o servizio negli Stati Uniti).

Nel 2020 la democrazia americana ha arginato Trump – a stento – con il voto e con la repressione del tentato colpo di Stato del 6 gennaio 2021. Quattro anni dopo, ormai è chiaro, la democrazia è diventata più fragile e incerta proprio come il suo improbabile campione, Joe Biden.

La vera domanda che il dibattito di questa notte solleva non è chi vincerà le elezioni, ma su quale terreno si svolge la competizione tra democrazia e autoritarismo. Quello di Trump è un attacco allo Stato e alle sue prerogative, che includono stabilire le regole per l’accesso al potere e il monopolio dell’uso legittimo della forza.

Biden ha scelto – per ora – di tenere la competizione sul piano del consenso, mentre il resto del sistema americano prova ad arginare l’attacco di Trump su altri fronti, a cominciare da quello giudiziario.

Discutere della fragilità di Biden, insomma, distoglie l’attenzione dal vero problema, che è la fragilità della democrazia liberale. Non soltanto americana.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 28 giugno 2024

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Un commento

  1. Angela 29 giugno 2024

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