Accanto alle altre vicende oggettivamente più importanti e drammatiche che alimentano i titoli dei giornali occorre – siamo in Italia – trovare uno spazio per la missione che Silvio Berlusconi ha affidato a Stefano Parisi, l’homo novus della sua cerchia, designato ad alti destini dopo la prova data a Milano nelle elezioni amministrative del giugno scorso.
I cultori della materia si avventurano in una decifrazione alquanto difficile: si tratta di un’investitura alla leadership, come sembrava dai primi annunci, o di qualcosa di diverso come sarebbe una sorta di “mandato esplorativo” per verificare se ci sono e quali siano le condizioni per riattivare, prima e più di una formazione politica determinata – Forza Italia – un’area politica oggi ridotta alla frantumazione e all’impotenza?
Gli strilli di dirigenti e capipopolo di Forza Italia farebbero propendere per la prima ipotesi: un colpo di reni del Cavaliere cardiologicamente rigenerato e politicamente meglio consigliato per uscire dal disagio di una posizione estremistica, soggetta di fatto all’egemonia della Lega di Salvini.
Caccia ai “moderati”
Berlusconi ha dimostrato in più occasioni di vivere con sofferenza una simile condizione, in particolare nel caso di Roma, dove ha preferito schierarsi su una posizione perdente ma… autonoma (Marchini) pur di non assecondare il corso populista del duo Meloni-Salvini. Ma anche nel caso di Milano valeva la stessa logica. Il candidato sindaco Parisi non era espressione di quella vocazione estremistica e ciò gli ha consentito – questa la tesi – di andare ad un ballottaggio competitivo con il candidato del Centrosinistra.
Ora si comprende che la scelta di Parisi, un manager di remota estrazione socialista e dai connotati politici alquanto sfumati, era qualcosa di più e di diverso da una candidatura locale. Era una sorta di collaudo di una linea ancora indefinita ma comunque distinta dalla caduta obbligata nella gabbia di una destra che superava bensì il secessionismo interno ma solo per accedere ad un nazionalismo autarchico e privo di sbocchi.
La chiave per tale collaudo era la parola “moderati”, l’area alla quale Parisi dedicava il massimo delle cure, con appelli e suggestioni programmatiche volte a riattivare attenzione e impegno; e la chiave ha funzionato nel confronto con gli avversari, togliendo di mezzo i Cinquestelle al primo turno e fronteggiando alla pari la coalizione guidata dal Pd, anch’essa peraltro con un candidato non di partito.
Sono state queste le constatazioni che hanno indotto i promotori dell’operazione milanese (dall’area familiare-aziendale (Mediaset ai “centristi” di Maurizio Lupi) a suggerire a Berlusconi di rilanciare il cuore politico-programmatico del risultato ottenuto: una sconfitta rispetto agli avversari sul campo, ma un atto di supremazia verso seguaci e alleati che coltivavano un diverso disegno.
Sarà dunque sulla pista dei “moderati” che si svolgerà la missione di Parisi fino alla “convention” di settembre, che non sarà un congresso (istituto vietato in una struttura monarchica al pari delle “primarie”) ma sarà chiamata a decidere il “che fare” in politica. Il nome e il programma (oltre alla selezione dei quadri) saranno correlati a questa scelta; e il ruolo di Parisi sarà stabilito di conseguenza. In una scala di valori gerarchici che va dal semplice consigliere del principe a erede designato delle fortune del regno, con la candidatura alla Presidenza del Consiglio.
Ipotesi di futuro
Le reazioni dei maggiorenti di “Forza Italia” sono comprensibili. Comunque vadano le cose, ad essi viene sottratta la guida di un processo che è decisivo per le sorti del partito e, in esso, per i loro destini personali. E non è un caso che proteste e diffidenze crescano in ragione della distanza tra l’impulso di Berlusconi (Parisi) e le opzioni sulle quali “Forza Italia” si era sin qui attestata: opposizione rigida al governo e rilancio strategico dell’alleanza con la Lega. La scelta “moderata” fa venir meno questa prospettiva (e lo certificano anche le invettive di Salvini), mentre sul governo il discorso è più complesso.
Un punto però è chiaro. Se l’appello ai moderati è il nucleo dell’operazione e se questa non si esaurisce all’interno del partito, l’orizzonte si allarga e si complica. I “moderati” infatti non stanno solo all’opposizione ma anche al governo e anzi – in attesa di più puntuali definizioni del concetto – si può dire che la vocazione governativa appartenga alla loro stessa natura. Se sarà tentata ed avrà uno svolgimento non formale, un’iniziativa di riavvicinamento e di riallocazione politica dei “moderati” implica conseguenze sul governo. In particolare si fa delicata la condizione dell’Ncd di Alfano, stretto tra le condizioni non brillanti della coabitazione col Pd e il destino incerto di una riedizione del connubio dopo il ripudio con Berlusconi.
La sospensione del giudizio è obbligatoria in presenza di elementi d’analisi tanto incerti e aleatori. Se ci sarà una più marcata connotazione “moderata” di quello che è stato il polo di centrodestra, è tuttavia evidente che stavolta l’evoluzione non avverrà con un colpo di… predellino. Non c’è più spazio in quelle contrade per effetti di teatro. È logico semmai preventivare un ciclo esteso e severo di lotta politica tra entità che un tempo erano unite e poi si sono separate ed ora di nuovo si cercano. Ad esse non è consentito di produrre nuove escogitazioni unitarie senza un riesame adeguato delle ragioni dei dissidi e delle convergenze.
Più autentico e incisivo sarà il confronto, più significativo potrà essere il risultato politico in un contesto in cui il confronto democratico non è più compatibile con gli artifici delle formule semplificate. Sotto questo profilo il compito di Parisi è importante, perché ha da affrontare un tema aggiuntivo: come includere Berlusconi in un disegno di superamento del berlusconismo.