La politica di Gesù

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Oggi, senza dubbio, nelle dispute internazionali per l’egemonia, il modo di gestire i conflitti a cui eravamo abituati dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale è cambiato. Ovviamente, non sto affermando che, per decenni, la lotta globale per il potere non sia stata condotta attraverso interventi militari. Infatti, le guerre non sono mancate, ma lo scontro era moderato dalla stabilità delle regole e dalla diplomazia. Pensiamo, ad esempio, a come è stata gestita diplomaticamente la crisi dei missili di Cuba (1962), un evento che ha lasciato il mondo a un passo dal conflitto nucleare tra USA e URSS.

La congiuntura ha cominciato a cambiare il suo aspetto con le guerre civili genocide dell’ex Jugoslavia (1991-2001), dove si è assistito all’incapacità della comunità internazionale di «civilizzare» la sanguinosa guerra tra etnie e religioni. Tuttavia, almeno nella fase finale, ha prevalso la condanna dei crimini e dei criminali di guerra.

Il «tempo che rimane»

Al giorno d’oggi, la condanna dei criminali e dei crimini sembra una proposta illusoria e irrealizzabile. Assistiamo, impotenti e manipolati dalla stampa, alla barbarie di Gaza e dell’Ucraina, trasmessa quotidianamente, in diretta, dai media internazionali.

La guerra prevale tout court, senza regole, senza la finzione di narrazioni «razionali», che «giustifichino» l’uso indiscriminato delle armi.

Allo stesso tempo, mi sembra che la caduta del muro di Berlino e del regime sovietico abbiano contribuito al quadro di logoramento ideologico e di esaurimento della sinistra internazionale, che doveva, in gran parte, la sua consistenza alla polarizzazione ideologica e politica della Guerra Fredda.

In ambito cattolico, la dottrina sociale della Chiesa insiste magisterialmente sulla necessità e la possibilità di servire politicamente il bene comune, scommettendo sul progresso etico e politico delle società e sul futuro della storia.

Tuttavia, viene completamente dimenticata la dimensione escatologica da vivere nel «tempo che rimane» tra le due venute di Gesù, un tempo che non dovrebbe essere affrontato come teatro di un progresso permanente e indefinito. Avremmo un «già e non ancora» ridotto alla dimensione cronologica e così scomparirebbero il kairos e la spiritualità della fine del mondo e del giudizio universale, che si realizzano potenzialmente in ogni istante del nostro presente.

Antimperialismo di ritorno

Gli sguardi ottimistici sulle drammatiche congiunture della storia attuale si scontrano con gli sguardi, perplessi e disarmati, davanti alla brutalità della guerra, che non possiede altra «ragione» se non la ferma intenzione di annientare il nemico.

Vale la pena aggiungere che, sebbene l’attuale situazione in Venezuela sia molto lontana dalle guerre europee e mediterranee, nell’Abya Yala abbiamo gli stessi conflitti e gli stessi attori internazionali di quelle controversie.

Il timore di catastrofi che potrebbero colpire ogni angolo della Patria Grande non è un’esagerazione paranoica. Anche perché ciò avviene in un contesto di crescita esponenziale dell’estrema destra e della corrispondente crisi identitaria della sinistra, divisa, in modo senza precedenti, di fronte alle congiunture mondiali, in cui le letture campiste e le simpatie antioccidentali si mescolano all’ideologia panrussa e all’islamismo del jihad o al sostegno «partigiano» della resistenza ucraina.

Insomma, di fronte al moltiplicarsi degli imperialismi, prevale la «coazione a ripetere» un unico antimperialismo datato e obsoleto, ignorando gli altri imperialismi concorrenti e altrettanto dittatoriali, liberticidi e violenti.

Pensiero e prassi gesuani

È da questa lettura della realtà che mi rivolgo al pensiero e alla prassi di Gesù di Nazareth.  Che cosa Gesù ci insegna e ci propone per imitarlo e seguirlo?

Un passo del Vangelo di Giovanni (Gv 6,1-15) ci offre forse un’ispirazione per il discernimento politico di questa congiuntura nella storia dell’Abya Ayala e della Terra.

Abbiamo una moltitudine di persone bisognose e affamate e Gesù, iniziando un processo fraterno di condivisione, a partire dai pochi pani e pesci di un ragazzo, fa di quella moltitudine un popolo. Un popolo che si costruisce con il proprio protagonismo, senza la mediazione esterna di mediatori autoritari. Inizialmente, quella massa, che finalmente potrebbe riconoscersi come popolo libero e padrone della sua storia, riconosce Gesù come profeta, autore di gesti motivanti e ispiratori, ma subito, cade nell’equivoco di sempre e vuole fare di Gesù un re, benefattore e provvidente. Gesù sfugge a questa trappola insidiosa. Fugge dalla tentazione di un potere che espropria e domina, comprando la libertà con la distribuzione del pane. Fugge dalla tentazione dello stato, con i suoi palazzi, eserciti e templi.

Più tardi, quando le potenze economiche, politiche e religiose decideranno di eliminarlo perché sta seriamente minacciando la stabilità del sistema di oppressione, dirà a Pilato: «Il mio regno non è secondo la logica perversa dei regni di questo mondo» (Gv 18,36-37).

Certo, la posizione di Gesù è inequivocabilmente politica, ma non nel senso di costruire un’opposizione partitica e militare al sistema della morte, per conquistare il potere dello stato.

La sua proposta è assolutamente nuova, senza precedenti, rivoluzionaria, radicalmente alternativa. Centrale è l’annuncio del Regno, che, senza dubbio, è un progetto di trasformazione fraterna della vita, che richiede la prassi dei discepoli di Gesù, ma è soprattutto (e questo siamo da secoli specializzati ad ignorarlo e dimenticarlo) un seme nascosto, ma rintracciabile nella storia umana. Un regno, apparentemente insignificante e sconfitto, che però anticipa la nostra iniziativa e ci offre la possibilità di riconoscerlo come presente.

Straordinaria vitalità

Vi racconto una storia per rafforzare questa prospettiva.

Celebro l’Eucaristia in una comunità della periferia e caratterizzata da un devozionismo tradizionale, lontano dalla pastorale della liberazione, con una configurazione comunitaria che mi obbliga a identificarla come «di base», ma che, allo stesso tempo, non corrisponde pienamente alla nomenclatura delle CdB.

Dietro ciò che si vive nel culto, nascosto dietro le parole ereditate dalla colonizzazione cattolica e della cristianità, c’è la sorpresa di un tessuto comunitario vivo e attuante. La Chiesa, che, quando si trova nella cappella, sembra datata e obsoleta, è qualcosa che nella vita concreta è sorprendentemente eccezionale: la comunità è una grande famiglia di famiglie, che si prendono cura l’una dell’altra, nei momenti di difficoltà e di successi, di malattie, di lutto, di festa, di memorie.

I giovani, gli adolescenti, i bambini imparano questo modo di vivere, senza un’esplicita programmazione pastorale. La cosa incredibile è che non conoscono la straordinaria bellezza del loro modo di vivere la fraternità. Sono così umili da non avere tentazioni autoreferenziali e, in relazione alle altre forme di religiosità, sono comprensivi, intrattengono rapporti rispettosi di convivenza e di aiuto.

Credo che solo da esperienze come queste e simili, che possono essere anche la testimonianza silenziosa di santi e sante nascosti in mezzo alla gente, abbiamo le basi per continuare la nostra opposizione radicale al sistema della morte. Semi del Regno che è vicino, alla nostra portata.

La forza degli sconfitti

Credo anche che sia necessario ricordare i martiri del cammino, i martiri della terra, uomini e donne, sconfitti, ma indiscutibilmente vittoriosi in Gesù Messia.

I poveri, i piccoli, gli umili, indomiti e pacifici guerrieri della Giustizia e della Verità, sono i veri vincitori, in opposizione ai vincitori, a coloro che li considerano inutili, massa eccedente e sconfitta.

La Parola di Gesù mi sembra suggerire che la scelta di partecipare alla vita politica, scommettendo sulla vittoria e sulla conquista dello stato, sia teologicamente sbagliata, perché la politica di Gesù nasce dalle potenzialità del Regno, un seme nascosto in mezzo ai poveri, una rivoluzione nelle relazioni umane e ambientali, che sostiene il confronto radicale con le potenze diaboliche di questo mondo.

Insomma, in questi tempi duri e bui, esso deve ripensare il significato politico della Croce e infine riproporre, nella sua verità cristallina, il motto del tradimento costantiniano «in hoc signo vinces». E affrontare l’Anticristo sapendo che la sconfitta della Croce è l’unica e definitiva vittoria.

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Un commento

  1. Salfi 26 settembre 2024

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