Qui la prima parte dell’approfondimento di Francesco Strazzari sulla questione curda.
Il nome Rojava significa “l’Occidente” ed è una regione autonoma collocata nel nord e nord-est della Siria, di 4.600 mila abitanti, con capitale Qamishli, costituitasi nel 2012, ufficialmente il 21 marzo 2014, non riconosciuta dal governo siriano. I curdi la considerano una delle quattro parti del Kurdistan.
Le forze di Assad si ritirarono nel corso della guerra civile, lasciando il controllo alle milizie curde (YPG). Si costituì il Comitato supremo curdo (DBK) con il Partito dell’unione democratica (PYD) e il Consiglio nazionale curdo (KNC) come organo di governo del Kurdistan (luglio 2012), composto da un numero uguale di membri del PYD e del KNC.
Nel novembre 2013 il PYD ruppe con il KNC e annunciò la formazione di un governo ad interim diviso in tre aeree autonome: Afrin, Jazira e Kobanê.
Nel 2014 l’aviazione turca bombardò la zona di Rojava per impedire la formazione di una forte presenza curda a sud della Turchia.
Stando al Comitato sociale del Rojava, promulgato il 20 gennaio 2014, il Rojava raggruppa regioni autonome all’interno della Siria e si definisce una repubblica parlamentare fondata sul pluralismo e sul decentramento, secondo le indicazioni del federalismo democratico di Öcalan, di cui abbiamo delineato le caratteristiche nel precedente servizio, che dà molta importanza al femminismo e all’ecologia, ritenuti i pilastri centrali.
Rojava possiede un’assemblea legislativa, il consiglio esecutivo, con ben 25 dipartimenti, l’alta commissione per le elezioni, la suprema corte costituzionale, i consigli municipali e provinciali.
Un interessante e documentato saggio di Limes (luglio 2017), a firma di Isabel Käser dell’università di Londra, affronta il tema del femminismo in Öcalan, come è interpretato nel Rojava.
Nel 2014 avvenne il massacro di Kobanê ad opera dello Stato Islamico. Le donne dell’YPJ (Unità di protezione delle donne) divennero le eroine della lotta contro l’ISIS, che andava catturando un buon numero di villaggi curdi.
Il mese di settembre 2014 vide le forze dello Stato Islamico avanzare verso la città fino a due chilometri dal centro e potevano controllare il 75% del cantone di Kobanê.
Verso la fine di settembre, a corto di munizioni, i curdi iniziarono la ritirata. Le forze jihadiste entrarono in città e commisero ogni sorta di malvagità: stupri, omicidi, mutilazioni. Infuriarono i combattimenti anche nella prima decade di ottobre.
Grazie ai bombardamenti dell’aviazione USA, verso la fine di ottobre, soldati curdo-iracheni, membri del PKK e cittadini europei di origine curda, riuscirono a conquistare le colline che circondano la città. Nei mesi di novembre e di dicembre la lotta fu furibonda. Il 26 gennaio 2015 i curdi riconquistarono la città di Kobanê e il 30 gennaio il portavoce dell’ISIS ammise la sconfitta.
Isabel Käser si domanda: ma chi sono queste donne, come sono giunte alle armi e, soprattutto, cosa fanno oltre a combattere? Seguiamo il racconto della Käser.
«Una volta entrata nella resistenza, la donna è soggetta a un rigido indottrinamento del partito. Nel giro di un mese (nel Rojava; altrove di più) le donne imparano a essere libere: un esercizio intellettuale che va di pari passo con l’addestramento militare, in cui alle reclute è tra l’altro insegnato l’autocontrollo, ovvero la capacità di dominare tutte le impellenze fisiche, incluso l’istinto sessuale, al fine di potersi dedicare alla lotta».
Öcalan è determinato al riguardo: la donna deve imparare a dominare se stessa, a credere in se stessa, a credere nella possibilità di creare un mondo migliore. Imparato questo, potranno controllare ogni parte del corpo, difendersi, prendere parte a operazioni rischiose e al limite, uccidere il nemico, far fronte al dolore, alle innumerevoli prove fisiche. Ciò vuol dire far piazza pulita del “patriarcato” e battersi per la liberazione di tutte le donne del Kurdistan.
Non importa cadere in battaglia: il martirio sublima e spinge altre a prendere il posto delle cadute in battaglia. La lotta – secondo l’ideologia di Öcalan – è giusta, la vittoria finale è a portata di mano, si deve continuare a tutti i costi.
Il problema è discusso e infuocato: perché militarizzare le donne? Non si arriva ad imporre loro una “mascolinità guerresca”? Le donne soldato non rischiano di essere senza volto? No, si risponde: è la volontà di rimpiazzare il patriarcato.
La Käser porta un esempio emblematico. Nel Rojava l’Unità di protezione delle donne (YPJ) ha realizzato un villaggio per sole donne: vedove di guerra o donne che hanno scelto di restare single.
Il movimento femminile curdo ha di mira la liberazione totale della donna, ma rifiuta l’etichetta di “femminismo”, volendo costruire una società nuova fondata esclusivamente su una “prospettiva femminile”. I movimenti femministi, invece, corrono il pericolo di essere di élite e di non coinvolgere la massa delle donne.
In ogni villaggio e città del Kurdistan si insegna il jineoloji (silenzio delle donne), cioè il progetto che mira a rendere le donne intellettualmente autonome, distanziandosi dai maschi e dagli altri movimenti femminili.
Le donne scendono in politica, fanno parte delle strutture governative, sfidano il patriarcato. Perfino gli orientamenti sessuali subiscono dei contraccolpi. Rinunciare alla sessualità le rende più libere, le protegge dalle pratiche riproduttive patriarcali e le sottrae alla dipendenza dagli uomini.
La conclusione cui arriva la studiosa di Londra: «Chiedersi chi siano queste donne, come siano giunte alla resistenza armata e soprattutto cosa facciano sono domande utili, ma prive di risposte univoche. Di certo, l’indottrinamento che ricevono una volta entrate nei ranghi del partito costituisce un formidabile strumento di resistenza: imparano chi sono, come far sentire la loro voce e reclamare i loro diritti attraverso la lotta per la libertà, secondo i dettami ideologici di Abdullah Öcalan». Mito e utopia?
[segue]