Intenti come sono a seguire gli sviluppi militari e diplomatici delle due guerre che da mesi polarizzano l’attenzione del mondo, molti osservatori rischiano di non dedicare abbastanza attenzione a ciò che esse stanno significando per il mondo e per le nostre stesse democrazie.
La crisi ucraina
Quando è esplosa la crisi ucraina, il nostro pianeta viveva la stagione di una globalizzazione (a livello economico) e di una distensione (a livello politico) che aveva progressivamente dissolto il clima pesante della «guerra fredda» post-bellica e consentito l’avvio di processi significativi di cooperazione pacifica anche tra paesi, come la Germania e la Russia – che la seconda guerra mondiale aveva visto sanguinosamente contrapposti. La caduta dei muri – a partire da quello di Berlino, nel 1989 – sembrava essere diventata simbolica di un nuovo clima, carico di speranze.
Questa guerra ci ha riportato indietro di molti decenni. All’origine c’è stata la protervia imperialistica di Putin, che l’ha provocata con la sua invasione e l’ha resa selvaggia con una conduzione che ha ignorato il diritto internazionale, meritandogli la condanna della Corte penale internazionale.
Ma la risposta delle democrazie occidentali è stata altrettanto estrema e non ha certo favorito la possibilità di un negoziato. Incalzate dalla foga oratoria e diplomatica del presidente Zelenskyi, esse hanno sempre più assunto un ruolo di protagoniste, ponendosi nella logica dello scontro frontale. L’obiettivo dichiarato e perseguito, sia con le misure politiche, sia con le sanzioni economiche, è stato fin dall’inizio quello – per usare le parole del presidente Biden – di «isolare la Russia dal palcoscenico internazionale», riducendola al ruolo di «paria».
Così, all’indomani dell’invasione, si è scatenata una demonizzazione senza precedenti di tutti coloro che avevano a che fare con la Russia. Non solo le squadre – per esempio la Nazionale di calcio e i club russi – furono bandite dalle competizioni internazionali, ma anche i singoli che chiedevano di gareggiare a titolo personale – per il solo fatto di essere russi, a prescindere dalle loro prese di posizione politiche.
I tennisti, furono esclusi dal torneo di Wimbledon; il Comitato Olimpico Internazionale raccomandò «vivamente» a tutte le federazioni mondiali di «non invitare atleti russi e bielorussi» alle gare sportive internazionali; il divieto fu addirittura applicato anche agli atleti disabili che avrebbero dovuto partecipare (ed erano disposti a farlo senza bandiera) alle para-olimpiadi invernali di Pechino.
Perfino nei teatri occidentali venero cambiati i programmi, togliendo dai cartelloni, per solidarietà all’Ucraina, opere e artisti russi. Un muro altissimo e invalicabile, in un certo senso più alto e impenetrabile di quello di Berlino.
Il «nuovo ordine» della corsa alle armi
Si è avverato così quello che Biden, all’indomani dell’invasione, durante un viaggio in Europa, aveva preconizzato: «Ci sarà un nuovo ordine mondiale là fuori, e dobbiamo guidarlo. E dobbiamo unire il resto del mondo libero nel farlo».
In questo «ordine» ha assunto un ruolo decisivo il rilancio della NATO, un’alleanza militare a guida americana con la finalità di far fronte all’Unione Sovietica – e perciò ritenuta da molti ormai superflua dopo la fine di quest’ultima – e che, dopo la crisi ucraina, è diventata protagonista, ponendosi come «il modello di una nuova costruzione occidentale» (Giuseppe Sarcina, «Corriere della Sera» online del 24 marzo 2022).
Anche se tutto il progetto salterebbe nel caso di un’elezione, a novembre, di Donald Trump, che aprirebbe però scenari diversi, ma forse non meno inquietanti.
In questo «nuovo ordine» planetario, fondato sulla reciproca ostilità senza dialogo, al fronte guidato dagli Stati Uniti si contrappone un asse russo-cinese, reso molto più saldo da questi ultimi sviluppi (si veda la piena sintonia registrata nella recentissima visita di Putin a Pechino) e che conta sulla simpatia di paesi come l’India (il cui premier ha anche fatto le sue congratulazioni a Putin per la sua rielezione), l’Iran, il Brasile, il Sudafrica – legati tra loro anche dal BRICS, un patto economico che mira a trovare un’alternativa al dollaro, – nonché un certo numero di Stati africani (ultimo il Niger, che proprio recentemente ha espulso la guarnigione statunitense, sostituendola con quella russa).
L’esito di questa spaccatura del mondo, paragonabile solo ai tempi più bui della «guerra fredda», è una corsa agli armamenti, con un aumento record dei profitti delle industrie che producono armi.
Con il ripresentarsi del fantasma, che sembrava esorcizzato per sempre, di una terza guerra mondiale – questa volta nucleare – di cui si parla ormai con preoccupante frequenza.
Oggi che le truppe di Mosca avanzano in Ucraina – smentendo le entusiastiche prospettive di una rapida e totale vittoria, su cui Zelensky era riuscito a coinvolgere l’Occidente –, le perplessità sulla guerra crescono.
Ma c’è da chiedersi se la sfida lanciata dal regime autoritario di Putin alle democrazie occidentali non sia stata già persa, prima che sui campi di battaglia, per il fatto stesso di avere puntato sulla liquidazione dell’avversario, fidando nella forza delle sanzioni economiche e soprattutto sul successo militare.
Ora che la pura forza sta dimostrando di non poter risolvere nulla, la sola via plausibile è quella che forse avrebbe potuto essere praticata, o almeno tentata, fin dall’inizio: quella di un confronto – arduo, problematico, ma necessario. Anche se ora, dopo più di due anni, essa si pone in un contesto planetario drammaticamente deteriorato.
La guerra perduta dalla democrazia israeliana
Qualcosa di simile viene dimostrato dalla guerra di Gaza. Anche qui c’è stata una sfida, lanciata il 7 ottobre 2023, da un soggetto politico-militare non certo democratico, com’è Hamas, con i metodi propri del peggiore terrorismo, a un paese democratico, Israele, che proprio in quel momento stava lottando al suo interno per sventare il disegno autoritario di Netanyahu.
Anche qui, però, la risposta, invece che una presa di coscienza dei problemi che stavano all’origine della crisi e un tentativo di aprire un confronto con la parte del modo palestinese con cui era possibile dialogare, per risolverli pacificamente, si è scelto di puntare su una reazione di violenza inaudita, che ha assunto i tratti, se non di un genocidio, almeno di una vera e propria pulizia etnica.
I risultati anche qui sono stati disastrosi. Nessuno dei due obiettivi additati all’inizio della campagna è stato, dopo più di sette mesi, raggiunto, mostrando l’impotenza di un apparato militare come quello israeliano, che in passato aveva sempre sbaragliato in poche settimane, in qualche caso in pochi giorni, le coalizioni militari dei paesi arabi alleati. Né gli ostaggi sono stati liberati, né Hamas è stata annientata.
In compenso, Israele si sta trovando in un isolamento internazionale senza precedenti, condannato da un’opinione pubblica mondiale in cui il suo comportamento disumano ha ridestato i fantasmi dell’antisemitismo e abbandonato perfino dai governi tradizionalmente suoi più stretti alleati.
Forse la lezione che emerge da queste due vicende è che le democrazie non possono e non devono, in politica estera, appiattirsi sulle forze non democratiche – la Russia di Putin, Hamas – con cui devono fare i conti. La simmetria nella violenza non porta loro fortuna, non solo perché non risolve affatto i conflitti, ma anche e soprattutto perché tradisce la loro più intima aspirazione alla pace. E non si raggiunge la pace facendo la guerra.
La sola alternativa non è una colpevole resa alla prepotenza dei violenti. C’è una via di mezzo tra questa scelta, sicuramente inaccettabile, e la logica dell’«occhio per occhio dente per dente». È proprio nel saperla trovare e percorrerla che una democrazia dà la piena prova di se stessa. Altrimenti rivela la sua fragilità.
- Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (tuttavia.eu), 17 maggio 2024
Gentile sig. Savagnone
Le assicuro che quelle parole irriverenti non erano rivolte a lei. Avevo riconosciuto già da tempo l’obiettività e il buon senso dei suoi interventi. La mia impressione però è che non si sia dato molto spazio a voci come la sua e che i richiami di papa Francesco non abbiano avuto la considerazione e l’approfondimento che meritavano. Di certo se ha pensato che mi stessi rivolgendo a lei la colpa è del modo in cui mi sono espresso. Mi dispiace se si è sentito offeso e la prego di accettare le mie scuse.
Gentile Sig. Giovanardi, con tutto il rispetto per la sua tristezza, mi permetto di rispondere alla sua domanda: «Queste tardive parole sarebbero state pronunziate s e la Russia fosse stata sconfitta?» rinviandola ad alcuni articoli (“Chiaroscuri” da me pubblicati molto tempo fa, in tempi non sospetti (quando la Russia stava perdendo) sullo stesso sito da cui proviene quello che ha appena commentato: http://www.tuttavia.eu. Contengono esattamente le stesse considerazioni che lei ora giudica «tardive», ma che in realtà io continuo a ripetere fin da allora. Li troverà sul sito “tuttavia”, in archivio, se cliccherà su aprile 2022. Le indico i titoli: “Verso un nuovo orine mondiale?”, “Non è così che si costruisce la pace”, “Una guerra mondiale che mette in crisi la globalizzazione” (questo è dei primi di maggio). Spero che questa scoperta la consoli e attenui la sua condanna nei confronti dei pubblicisti cattolici. Qualcuno «asservito e omologato alla mentalità dominante» non lo è mai stato.
Teniamo conto che nei territori occupati dalla Russia di fatto è avvenuta l’espulsione di gran parte dei filoucraini, e probabilmente della maggioranza dei residenti precedenti alla guerra. E se ne è scritto pochissimo.
Nel Donetsk e nel Luhansk occupati vi è stato dopo il 2014 una deucranizzazione e russificazione molto intensa, con persecuzione di chi si opponeva al regime separatista e delle minoranze. E quasi nessuno ne ha parlato.
In Crimea gli ucraini e i tatari dal 2014 ucraini e tatari sono perseguitati, con le loro organizzazioni dissolte dall’occupante, e un milione di russi si è trasferito nella penisola. E se ne è parlato pochissimo.
Tutte le presunte politiche future che ascriverebbe all’Ucraina la Russia le ha già fatte
Finalmente parole di buon senso, qualcuno penserà. Ma queste parole, pronunciate dopo più di due anni dallo scoppio della guerra in Ucraina, potevano essere pronunciate già dopo due settimane talmente sono ovvie. Adesso non sono più sufficienti per cambiare le cose, è per questo che si possono pubblicare? Queste tardive parole di buon senso sarebbero mai state pronunciate se la Russia fosse stata sconfitta? Con tutte queste parole di odio sapientemente orchestrate fin dall’inizio, cosa sarebbe successo quando le truppe democratiche avessero finalmente strappato la Crimea e il Donbass alla giungla e le avessero restituite al giardino? Con una popolazione in larga parte filorussa come minimo ci sarebbe stata la pulizia etnica. E i nostri giornaloni cosa avrebbero scritto? Il tripudio della democrazia, la vittoria del bene sul male. E tutto con questo con papa Francesco che ha parlato forte e chiaro fin dall’inizio. Che tristezza tutti questi pubblicisti cattolici completamente asserviti e omologati al sistema e alla mentalità dominante. Chissà cosa speravano di ottenere, qualche briciola caduta dalla mensa dei vincenti?