La solitudine autoreferenziale di Israele

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feriti a gaza

«Se Israele sarà costretto a restare da solo, Israele resterà solo (….). Dico ai leader del mondo: nessuna pressione, nessuna decisione da parte di nessun forum internazionale impedirà a Israele di difendersi».

Sono le parole con cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto all’annuncio del presidente Biden che, se le truppe israeliane entreranno a Rafah, gli Stati Uniti sospenderanno l’invio di armi allo Stato ebraico.

I commentatori l’hanno definita una svolta. Anche se, ribadendo il suo appoggio, per la prima volta il presidente americano prende le distanze dal governo di Netanyahu non a parole ma con i fatti.

Le bombe e la fame

Senza la costante fornitura assicurata dall’alleato americano, Israele non sarebbe stato in grado di sottoporre la Striscia di Gaza alla pioggia ininterrotta di bombe con cui l’ha tempestata ogni giorno per sette mesi. Già alla fine di novembre scorso, si calcolava che fossero state sganciati – su un territorio di 360 Km quadrati (poco più della metà della città di Madrid!), popolato di circa due milioni e mezzo di persone – più di 25.000 tonnellate di esplosivi, l’equivalente di due bombe nucleari.

In particolare Biden ha alluso alle micidiali bombe da novecento chili che l’amministrazione americana ha fornito allo Stato ebraico – sono state circa settemila – e che, secondo inchieste indipendenti del New York Times e della CNN, già nei soli mesi di ottobre e novembre sono state sganciate dall’aviazione israeliana almeno in 208 casi, anche su aree indicate dalle autorità miliari come «sicure», spingendo gli abitanti di Gaza a rifugiarsi in esse, dopo l’inizio dell’operazione di terra.

Non c’è da stupirsi che i dati forniti da più fonti parlino di 35.000 civili uccisi in questi sette mesi, su 2 milioni e mezzo di abitanti – per la maggior parte donne e bambini (in Ucraina i civili morti a causa della guerra sono stati, in più di due anni, 10.000, su 40 milioni di abitanti!). E si continuano a scoprire fosse comuni dove sono accatastati altri cadaveri. Per non parlare delle innumerevoli abitazioni, degli uffici, degli ospedali, delle moschee rasi al suolo da questi bombardamenti a tappeto.

Anche se forse la violenza più grave – e che tutte le organizzazioni mondiali e gli stessi Stati tradizionalmente alleati di Israele denunciano – è stata la catastrofe umanitaria provocata dal blocco operato dall’esercito israeliano ai valichi della Striscia, impedendo il rifornimento di viveri e di medicinali.

«La fame a Gaza è usata come arma di guerra, diciamolo chiaro. Ci sono sette mesi di derrate alimentari bloccate», ha denunciato il responsabile della politica estera dell’UE Josep Borrell senza mezzi termini.

Ora che circa un milione e mezzo dei civili cacciati nei mesi scorsi dalle loro case e dalle loro terre, si sono rifugiati a Rafah, Biden – come del resto i maggiori leader del mondo occidentale – avevano chiesto a Israele di desistere dall’attaccare direttamente quest’ultimo angolo di territorio, insistendo per un accordo che portasse a una tregua accompagnata dalla liberazione degli ostaggi.

La risposta di Netanyahu è stata che Israele avrebbe comunque invaso Rafah, «con o senza accordo». E sta mantenendo la parola, fra le proteste del suo più stretto alleato, gli Stati Uniti, e di un inedito schieramento di governi che dalla Russia al Regno Unito, dalla Francia alla Cina, dagli Stati Arabi all’Australia, si stanno trovando, come in pochissime altre occasioni, unanimi nel condannare questa scelta.

L’isolamento dello Stato ebraico

Il risultato di tutto questo è un isolamento internazionale che lo Stato ebraico non aveva mai sperimentato. Non solo nelle Università americane ed europee, ma anche per le strade si moltiplicano ogni giorno di più le proteste per ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza.

È dai tempi della guerra del Vietnam che non si assisteva a una simile mobilitazione popolare. L’ultima manifestazione è quella che ha coinvolto persone di ogni età e professione, perfino famigliole con figli, a Malmö, in Svezia, in occasione della 68ª edizione dell’Eurovision, un festival musicale da sempre all’insegna dell’unione fra i popoli, per la presenza delle bandiere israeliane ma non di quelle palestinesi e per la partecipazione ufficiale di un rappresentante israeliano.

I governi occidentali, che hanno sempre considerato Israele il baluardo della democrazia in un mondo islamico dove la regola sono regimi autoritari, e che per i primi mesi anche durante questa guerra gli hanno mostrato una piena solidarietà, si trovano ormai in grande imbarazzo.

Un imbarazzo testimoniato, fra l’altro, dalla decisione di diversi Stati (Unione Europea, Canada, Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia, Germania, Francia, Giappone, e, ultimamente anche Italia) – che, alla fine di gennaio, avevano immediatamente sospeso il finanziamento all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, dopo che il governo israeliano aveva accusato alcuni dipendenti dell’Agenzia di aver partecipato all’attacco del 7 ottobre – , di riconoscere che Israele non ha ancora fornito le prove che sosteneva di avere a supporto della propria tesi e di riprendere gli aiuti a una popolazione stremata dall’embargo israeliano.

Tutti antisemiti?

Certo, da parte di questi governi si denunzia con grande preoccupazione una pericolosa ripresa dell’antisemitismo. Ed è vero, purtroppo, che proprio le lobbies e le associazioni ebraiche europee e americane, sostenendo incondizionatamente il modo in cui lo Stato ebraico sta conducendo la guerra e accusando di antisemitismo ogni critica nei suoi confronti, hanno finito col favorire questa identificazione anche da parte di chi inizialmente non aveva nulla contro gli ebrei in quanto tali.

E così sono diventati tutti antisemiti: papa Francesco, accusato di aver messo sullo stesso piano le innocenti vittime israeliane della strage del 7 ottobre con quelle, altrettanto innocenti, causate dalla reazione israeliana; il segretario generali dell’ONU, Guterres, per aver ricordato che quella terribile data non è comunque l’inizio di tutto, ma si inserisce in una storia dolorosa in cui anche Israele ha le sue responsabilità; l’ONU stessa per avere chiesto una tregua immediata che risparmiasse i civili; organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Medici Senza Frontiere, per aver denunciato le angherie subìte dalla popolazione di Gaza.

E tutti sono accusati di aver dimenticato e di voler rimuovere gli orribili crimini commessi da Hamas, solo perché, pur avendo più volte espresso e ribadito la loro ferma condanna di quei crimini e chiedendo il rilascio degli ostaggi, ritengono inaccettabili anche le violenze con cui Israele ha risposto.

Né sembra un argomento sufficiente per giustificare queste violenze il fatto innegabile e ossessivamente ripetuto, che Israele è stato vittima di un’aggressione. Essere aggrediti non autorizza comportamenti disumani, contrari all’etica e ad ogni legge internazionale, tanto più se messi in atto non contro chi ha perpetrato l’aggressione, ma nei confronti di una popolazione inerme e innocente.

E sostenere che il terribile costo umano di questa guerra sia solo un involontario danno collaterale, come fanno il governo israeliano e i rappresentanti delle comunità ebraiche, significa chiudere gli occhi sull’evidente intenzionalità delle azioni distruttive e omicide con cui si è voluto isolare i terroristi facendo terra bruciata intorno a loro, sulla pelle di un intero popolo. È involontario colpire qualcuno per sbaglio, non seviziarlo e ucciderlo deliberatamente per stanare qualcun altro che è il vero bersaglio.

Si potrà fare ogni sorta di rilievi sugli eccessi che anche in questo caso, come spesso accade, caratterizzano le proteste universitarie; far giustamente notare che gli accordi per progetti di ricerca comuni – a meno che non riguardino tecnologie militari – non hanno a che fare con la guerra in corso; che proprio la classe intellettuale di Israele può costituire una risorsa critica contro la politica di Netanyahu e degli ultra-ortodossi bellicisti.

Tre domande senza risposta

Resta il fatto che troppi governi – a cominciare dal nostro – non hanno finora mosso un dito, concretamente, per fermare questo massacro, in corso da ben sette mesi, anzi in una prima fase si sono limitati a vaghe raccomandazioni per il rispetto dei diritti umani, chiudendo gli occhi sul fatto evidente che erano clamorosamente negati. La rabbia dei giovani, con le sue intemperanze, è la risposta a questa ipocrisia ufficiale.

Ma il problema vero, ormai, è che Israele è rimasto il solo – purtroppo col supporto dei maggiori esponenti del mondo ebraico internazionale – a sostenere di avere pienamente ragione, indignandosi, in buona fede, perché qualcuno mette in dubbio l’umanità e la legittimità del suo comportamento in questa guerra.

Ritornano le parole di Netanyahu: «Se Israele sarà costretto a restare da solo, Israele resterà solo (….). Dico ai leader del mondo: nessuna pressione, nessuna decisione da parte di nessun forum internazionale, impedirà a Israele di difendersi».

Ma può uno Stato rivendicare, giustamente, il proprio diritto ad esistere, in base ai criteri elementari di umanità e delle leggi internazionali, negando al tempo stesso questo diritto a un altro popolo?

E può chiedere il riconoscimento da parte della comunità mondiale, rifiutandone però il giudizio unanime sui propri comportamenti? E una democrazia che chiede solidarietà alle altre contro il terrorismo è ancora all’altezza della sua pretesa se cerca di colpire i suoi nemici (Hamas) terrorizzando e uccidendo degli innocenti?

  • Dal sito della pastorale della cultura della diocesi di Palermo (tuttavia.eu), 10 maggio 2024
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2 Commenti

  1. Giovanni 15 maggio 2024
  2. Christian 15 maggio 2024

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