Albertina Soliani, 72 anni, è nata a Boretto (RE), vive a Parma dove ha lavorato come insegnante e preside. Ha partecipato alla Conferenza internazionale per le donne a Pechino nel 1995. Nel 1996 è stata chiamata nel governo Prodi come sottosegretario del Ministero dell’Istruzione. Dal 2001 al 2013 è stata eletta nel Senato della Repubblica. Nel 2006 ha fondato l’Associazione Parlamentare “Amici della Birmania” di cui è stata presidente fino al 2013. Promuove i progetti tra l’Italia e il Myanmar in collaborazione con Governo, Istituzioni, Associazioni e aziende. Riportiamo ampi stralci della sua ultima lettera inviata agli “Amici di Birmania”.
Cari amici,
sono tornata una settimana fa dalla Birmania, tornerò là il 17 novembre. Tutto è così naturale, finché la vita mi sostiene. L’amicizia è condivisione, specialmente nei momenti difficili. E oggi la Birmania ha tutto davanti a sé, lo sviluppo, la democrazia, la pace.
Aung San Suu Kyi mi aspettava. Mi ha parlato a lungo, mi aveva anche chiesto di organizzazioni non governative italiane disposte ad aiutare le popolazioni del Rakhine State, oggi il luogo più caldo, al confine con il Bangladesh: i rohingya, gli indù, i buddisti. Poveri e da sempre in conflitto. Va sulla fiducia…
Portavo con me la pena della voce dell’Occidente, dura con lei. Volevo capire, non mi era mai bastato quello che i media dicevano, sotto c’era dell’altro.
Ho sperimentato che il mondo e i problemi si vedono in modo diverso a seconda del luogo in cui sei. L’orizzonte è sempre più largo. Là ho capito, su quel dramma, che vi sono, intrecciate, regie diverse.
La regia dei militari, tesa a indebolire lei e il suo governo, a legittimarli di nuovo come i salvatori.
La regia dei terroristi, del gruppo Arsa, impegnati a tenere aperto il conflitto, forse con l’obiettivo di costituire là uno stato islamico, usando i rohingya contro l’esercito e spingendoli in Bangladesh sotto la minaccia delle armi. Uccidono, incendiano, è stata trovata una fossa comune di un centinaio di indù.
C’è la regia dei Paesi occidentali, certo solidali con i musulmani vittime dell’ondata di violenze, senza patria da secoli, ma anche interessati, con una campagna senza sosta, a delegittimare Aung San Suu Kyi, a colpirne l’immagine sul punto più esposto: i diritti umani. Il fatto è che si aspettavano da lei, una volta andata al potere,
che aprisse il Paese ai loro interessi, che fosse un baluardo contro la Cina. Questo non è accaduto, non poteva accadere. Mi ha detto Thant Zin: lei non è stupida. E allora si può togliere, con un gesto simbolico e plateale, il suo ritratto da Oxford, demolirne l’immagine…
E Aung San Suu Kyi? Sa tutto, la debolezza politica dell’Occidente, con il ruolo dell’informazione e il condizionamento del consenso, gli interessi e le convenienze, l’incognita del terrorismo. Temevo fosse provata. Mi ha accolto con queste parole, come vi ho detto a caldo: Albertina, sei pronta a correre?
Sta accelerando. Il tempo è breve, i rischi sempre in agguato. Con forza e fiducia, con grande vicinanza ci ha raccontato la sua strategia. Percorre il sentiero stretto che le è consentito, sostenuta dal suo popolo. E dai suoi vicini, la Cina, il Giappone, l’India, la Corea del Sud, l’Australia.
Dopo il Rapporto di Kofi Annan, che aveva scelto subito come guida per il Rakhine, ha dato vita a Union Enterprise for Humanitarian assistance, Resettlement and Development in Rakine (Uehrd). Da lei presieduta.
Per realizzare tre obiettivi: il ritorno dei rohingya, l’aiuto umanitario e l’assestamento della popolazione, lo sviluppo. Se entrano nel territorio i civili, le istituzioni, gli aiuti internazionali, forse si restringe il campo del conflitto. Di questo ho parlato con i miei interlocutori, e della responsabilità di fronte a sé e al mondo che oggi investe per la prima volta nella sua storia il Myanmar. Il giorno dopo il nostro incontro Aung San Suu Kyi ha visto gli industriali del suo Paese, ha detto che toccava a tutti nel Myanmar contribuire per aiutare il Rakhine. La risposta è stata molto forte, hanno fiducia in lei…
Il Myanmar, appena venuto al mondo dopo il dominio coloniale e il regime dittatoriale, si è trovato nella bufera. Mentre la democrazia è solo un germoglio e tutto è possibile.
Eppure lavorano prendendosi cura delle cose, pensano di potercela fare con la guida di Aung San Suu Kyi. Che vede più di tutti le sfide e i rischi, eppure apre la strada a tutti. È l’unità del Paese, compresi i militari…
Quando siamo arrivati in Birmania, era stato arrestato il figlio di un Ministro del governo precedente, trafficava in armi. Mentre eravamo là, c’è stato un grande incendio in un grande albergo storico, c’eravamo fermate a prendere un caffè qualche giorno prima. Forse l’incendio copriva traffici di armi. Tutto il mondo è paese, ma là è un paese speciale. La corruzione, i conflitti, la violenza convivono con la non violenza e il sogno di pace.
Ho incontrato il Ministro dell’Industria Aung Kyaw Zan e ho capito meglio l’interesse per il vetro. La Birmania di vetro, non di plastica, è il Paese che vogliono costruire, il sogno di bellezza di Aung San Suu Kyi. Ho visto il piano dei nuovi grattacieli di vetro di Yangon. Ho immaginato la lastra a colori di vetro soffiato di Michele Canzoneri, forse sarebbe l’unica in Asia. Il Ministro ama il design italiano, guarda all’Italia nonostante gli investimenti dei vicini asiatici. Spero che possa venire in Italia. Le loro industrie sono ferme da anni.
Ho incontrato i docenti della Facoltà di Medicina in rapporto con l’università di Parma, e i medici di base della G.P. Society, e la dottoressa Wha Wha del Centro delle cure palliative, appena all’inizio. È invitata a Parma a marzo.
Ho parlato a lungo con Thant Zin, ho condiviso i suoi pensieri politici. Andrà presto a Sittwe, nel Rakhine, per fare un laboratorio di dialogo tra le religioni e le culture con gli insegnanti…
Aung San Suu Kyi è una forza spirituale, checché ne dicano i media occidentali. Che peraltro di spirito si intendono poco. E così questa parte del mondo, la nostra, rischia di perdere l’anima e il resto. Una grande pena.
Attendono con speranza la visita del papa, a fine novembre. Incontrerà la spiritualità di Aung San Suu Kyi, loro si intendono. Così affrontano le sofferenze del mondo. Dopo credo che niente sarà come prima.
Una sera, a Rangoon, sulla riva del lago Inja, ci siamo uniti alla preghiera interreligiosa di centinaia di persone: buddisti, musulmani, indù, cristiani. La spiritualità in Asia sarà una componente potente del mondo di domani. Insieme alla loro popolazione giovane, e all’economia della Cina.
Tornerò là presto, a metà novembre e fino alla fine del mese. Compresa la visita del papa. Per condividere con loro…
Vi confermo che l’Italia c’è, con la sua politica, con la sua valorosa e apprezzata Ambasciata, con la sua Agenzia per la cooperazione e lo sviluppo tenacemente impegnata. La cultura, il cinema italiano, il Made in Italy sono presenti a Rangoon grazie alle iniziative dell’Ambasciata. Anche nelle sedi internazionali l’Italia si muove con saggezza…
Capisco il silenzio di Aung San Suu Kyi. Talvolta non vi sono parole per dire pesi così grandi, o contraddizioni così dolorose, o di fronte a interessi di potere coperti dall’ipocrisia. Capisco la sua accelerazione, sa che il tempo è questo. Il tempo per lei è sempre stato “ora”. So che lavora tantissimo. E medita.
Internazionale di questa settimana così intitolava la copertina: “La fine della favola birmana”. La Birmania è sempre stata un dramma, dietro il fascino della sua bellezza e del suo spirito. È questo che stentiamo a capire, la grande sofferenza di cui oggi è parte anche la tragedia dei rohingya. Ma la favola vive, nel grande coraggio di un popolo, nella volontà di riscatto. È questo che incarna Aung San Suu Kyi. Pochi al mondo sono come lei. Diceva Caterina da Siena: “È meglio perdere la reputazione che la carità”. In Birmania a vivere ci vuole coraggio, e pazienza, si pagano dei prezzi. Si capisce il valore della vita e della politica. Sono la stessa cosa. Avremmo bisogno qui di questo spirito. Il mio spirito, lì, si sente a casa.
Grazie a tutti voi di essere parte di questa storia.
Albertina
Non si capisce NULLA. Mi unisco a Fabrizio Mastrofini nel biasimare il tono ambiguo e nebuloso dell’articolo, cercate di essere chiari. Così è inutile.
Non capisco bene. Eppure le domande sono semplici. 1. I Rohingya sono perseguitati sì o no? 2. Il governo (e la presidente) lo sa o no? 3. il governo è capace di fermare gli attacchi contro le minoranze o no? 4. Il governo è attaccato dai media occidentali e/o dalle industrie che pagano i media? Lo si dica chiaro con nomi e cognomi. Il resto è melassa sentimentale. Grazie.