Se si parla un po’ del Presidente libanese è solo perché è l’unico presidente cristiano in tutto il mondo arabo. Non è poco, ma questa volta la sua elezioni ha rilevanti risvolti per la pace regionale.
Il 30 ottobre 2022 il Presidente della Repubblica libanese, l’ex generale Michel Aoun, maronita come prevede il patto nazionale libanese, lasciava il palazzo presidenziale di Baadba. Da allora il Paese non ha un Presidente e il suo governo è in carica solo per il disbrigo degli affari correnti. Dopo oltre un anno trascorso dall’ultima volta che il Parlamento è stato convocato per eleggere il nuovo Capo dello Stato, il 9 gennaio 2025, in evidente violazione del dettato costituzionale, i deputati tornano a riunirsi; il Presidente del Parlamento, lo sciita Nabih Berri, ha fissato da tempo la data.
Non c’è ancora un accordo, anche se Stati Uniti e Arabia Saudita hanno posto tutto il loro peso a sostegno della candidatura dell’attuale comandante in capo dell’esercito, generale Joseph Aoun; sarebbe a loro avviso il nome giusto per garantire la tenuta e l’attuazione di quanto previsto dal cessate il fuoco in vigore dal 27 novembre scorso e che prevede una serie di «fatti» da realizzare entro il 27 gennaio per essere completato e portare alla definitiva cessazione delle ostilità: tra queste condizioni c’è il ritiro dell’esercito israeliano e quello dei miliziani libanesi, cioè di Hezbollah, e delle loro armi a 30 chilometri dal confine con Israele, lì dove scorre il fiume Litani.
I progressi sin qui sono stati pochissimi, tutto appare ancora incerto. Poi si capiranno altre indicazioni contenute negli accordi, che per molti richiedono il totale disarmo di Hezbollah, come richiesto da precedenti risoluzioni dell’ONU, citate nel testo che ha portato al cessate il fuoco. Ma il duo sciita, Hezbollah e il partito suo alleato guidato da Nabih Berri, resiste. L’ipotesi del disarmo totale non viene considerata sin qui: questo blocco non pone il veto ma neanche sostiene il generale. È credibile, come sostengono in molti, che essi chiedano di concordare prima del voto il nome del nuovo primo ministro e la suddivisione dei dicasteri, in particolare di stabilire quanti e quali andrebbero a loro esponenti. Ed è plausibile che il generale non lo abbia voluto fare.
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La cultura militare che il generale Aoun, e la sua esperienza, sembrano a molti le sole in grado di portare il Libano fuori dal guado. Così è stata abbandonata la strada proposta con successo nei pochi scrutini che hanno avuto luogo più di un anno fa da chi aveva ritenuto che per uscire dal baratro in cui si trova da anni il Libano e che la guerra ha ulteriormente aggravato servisse uno scarto politico: puntare sulle riforme indispensabili per trovare investitori, sostegni, credibilità internazionale, soprattutto nelle grandi istituzioni mondiali. Si tratta di ambienti che l’alto dirigente della Banca Mondiale Jihad Azour conosce benissimo, essendone un brillante dirigente con legami ovunque nel mondo. Il suo nome era apprezzato, aveva raggiunto quasi la maggioranza semplice dei voti e così il Parlamento non è stato mai riconvocato, avrebbe potuto essere eletto.
Questa strada oggi non c’è più. Si vira su Joseph Aoun, e due rischi di cui poco si parla spiegano bene cosa del sistema libanese si dovrebbe cambiare.
Come da noi, anche in Libano il Presidente deve essere eletto a maggioranza qualificata al primo scrutinio, poi a maggioranza semplice. Senza i voti del blocco di Hezbollah e Berri e i loro più stretti alleati quel quorum è irraggiungibile. Sul generale Aoun si contano ora 71 voti su 128, al primo turno ne occorrono 86. Il quorum si abbasserebbe però al secondo scrutinio e a quel punto con 71 voti potrebbe passare.
Ma la Costituzione, che abbraccia i principi dei diritti umani fondamentali per tutti i cittadini, senza distinzione, indicando poi che il confessionalismo andrà superato, aggiunge: «Non vi sarà alcuna legittimità costituzionale per qualsiasi autorità che contraddica il “patto di reciproca esistenza” (mutual existence)». Se il blocco sciita voterà compatto contro, potrebbe definire incostituzionale l’elezione, ritenendosi la completa e definitiva espressione della comunità sciita, che non ha altre forze rappresentate in Parlamento.
C’è anche l’opposizione cristiana, quella che portò Michel Aoun alla presidenza con i voti di Hezbollah. Determinati a tutto, fino ad ora, contro Joseph Aoun sarebbero pronti a ricorrere alla corte costituzionale perché essendo capo dell’esercito per candidarsi alla Presidenza della Repubblica avrebbe dovuto dimettersi mesi fa. Anche questo lo stabilisce la Costituzione.
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Sono gli ostacoli ancora da sormontare, ma la prima eccezione indica chiaramente cosa sia un «sistema settario»: quello libanese si è ricostruito come Stato dopo la guerra civile, ma è ancora il frutto di un patto tra comunità, non tra individui con uguali diritti. Il superamento del confessionalismo è un impegno «tendenziale» che nessuno però persegue nel ceto politico, visto che i partiti tendono a identificarsi o a dividersi la rappresentazione della loro comunità d’origine. I partiti sono confessionali, espressioni ancora delle divisioni che si determinarono ai tempi della guerra civile e dei clan che le hanno impersonate.
La cultura militare di cui è espressione Aoun aiuterebbe a fronteggiare la crisi bellica in cui il Libano si trova, ma la via della rinascita sociale indispensabile era più riconoscibile nel bagaglio di Azour. Dal suo profilo sembrava emergere ciò che servirebbe davvero, un Paese moderno, non settario, capace di archiviare questo paralizzante confessionalismo. E se provassimo a guardare con sguardo più largo vedremmo che questo è ciò di cui ha bisogno non solo il Libano.
Ai confini del Libano la Siria è appena uscita da 60 anni di dominio totalitario e nell’evidente dialettica, anche dura, tra il nuovo leader de facto, l’islamista Ahmed al-Sharaa, e i comitati popolari espressione della società civile che ha pagato un prezzo altissimo dal 2011 a oggi, vediamo una società che ottenuta la libertà non vuole rinunciarvi per il progetto islamista di chi ha sì combattuto Assad, ma con altra visione. Questa linea di opposizione, quindi di dialettica, va puntellata. E anche in Iraq si vede una dinamica simile, per via dell’evidente desiderio di ampi settori della società di liberarsi dalle milizie che gli sottraggono lo sviluppo auspicato.
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Il futuro Presidente libanese non conterà solo per il Libano. Potrebbe contribuire a creare un rapporto diverso tra paesi per i quali tutto è cambiato, e anche loro devono cambiare. Occorre però un nuovo modo di vedere sé stessi e il mondo.
Per uscire dall’epoca della Guerra Fredda, dei totalitarismi, quella parte di mondo mostra il bisogno di leader che sappiano pensare in termini nuovi, come fecero quelli europei dopo la Seconda Guerra Mondiale. Vecchi asti tra vicini in urto, cascami feudali e identitarismi comunitari inchiodano al passato della diffidenza, sono un ostacolo, in Libano come in Siria e in Iraq. Il nuovo Libano non avrà più nella Siria un nemico giurato, una cooperazione appare necessaria e ora possibile, perché a Damasco, dove il nuovo leader de facto ha ricevuto con tutti gli onori il leader druso Joumblatt, serve cooperazione. È finito il prussianesimo dei tempi degli Assad che ritenevano il Libano parte della Siria.
Una inedita cooperazione siro-libanese andrebbe incontro alle necessità del nuovo leader de facto siriano, che ha bisogno certamente di un Libano che contenga Hezbollah e non consenta nuovo progetti iraniani, ma aiuterebbe anche i gruppi della società civile, interessati a uno sviluppo pluralista del loro Paese. Il Libano se ne gioverebbe anche in termini di stabilità ma anche di prospettive commerciali. Questo sodalizio realista ma anche innovativo potrebbe estendersi all’Iraq. Sognare alle volte è indispensabile. Il disastro in cui questi Paesi si trovano sembra rendere questa «visione» indispensabile. E Azour sarebbe stato l’uomo dai trascorsi giusti per indirizzare questo processo partendo da ciò che conta per tutti, l’economia.
Secondo i più, il generale Aoun garantirebbe una gestione adeguata della delicata fase militare in arrivo. Il Libano dal dopoguerra civile, cioè dal 1990, ha avuto quasi sempre un generale Presidente: è stato così con Lahoud, con Suleiman, con Michel Aoun. Ora si avvicina il quarto generale. Probabilmente, se prima del 27 gennaio Joseph Aoun verrà eletto e supererà le eccezioni di incostituzionalità, non farebbe male, ma cambiare registro politico, puntare a riforme socio-economiche profonde, sarebbe stato molto importante.
Da una crisi, ripete dai tempi del Covid Papa Francesco, non si esce mai uguali, ma migliori o peggiori. Il Libano dei generali non è uscito dalla crisi, diciamo che l’ha gestita. Certo non sempre bene. Ora il coraggio di un nuovo modo di capire sé stessi e il mondo appare comunque indispensabile: il collasso del Libano ha dimostrato che sono le classi politiche che andrebbero rifatte. Per questo, al di là delle capacità dei singoli, un segnale di discontinuità, di apertura al mondo, avrebbe fatto parlare di svolta. Se l’impegno di sauditi e americani produrrà la presidenza di Joseph Aoun, si porrà alleno termine a un’incredibile vacanza presidenziale. Il resto lo vedremo.