Le prossime elezioni europee sanciranno, in Francia, la vittoria di Marine Le Pen. Tutti ne parlano come se si trattasse della grande svolta del secolo. In realtà, il partito di Marine Le Pen ha già vinto le due precedenti tornate elettorali europee: nel 2019, con il 23,3% dei voti validi (cioè con il favore dell’11,7% dell’elettorato, considerando un’astensione del 50% circa), e nel 2014, con il 24,9% (il 10,4% dell’elettorato, con l’astensione al 57%).
Due premesse
Due considerazioni preliminari si impongono. La prima è che poco più di un elettore su dieci ha scelto il Rassemblement national (ex Front national): un po’ poco per poter parlare di «valanga» dell’estrema destra.
La seconda è che gli elettori (francesi, ma non solo) hanno così poca considerazione per il parlamento europeo che usano quella elezione per – come si dice in gergo politichese – «mandare un segnale» al proprio governo nazionale, senza preoccuparsi troppo di chi «governerà» l’Unione Europea.
D’altronde, un sondaggio di un paio di anni fa rivelava che due terzi dei francesi non sapevano chi fosse Ursula von der Leyen (la presidente della Commissione) e tre quarti non avevano mai sentito parlare di Charles Michel (il presidente del Consiglio europeo).
È quasi certo che il partito di Marine Le Pen otterrà qualche voto in più alle elezioni di giugno rispetto a quelle del 2019: per quel che valgono, i sondaggi l’accreditano di una percentuale delle intenzioni di voto compresa tra il 27 e il 31%, e la somma di tutte le formazioni di estrema destra potrebbe arrivare fino al 37% dei voti espressi; il che significherebbe che, con un tasso di astensione molto probabilmente prossimo al 50%, la «valanga» sarebbe l’opera di un francese virgola otto su dieci.
Nondimeno, il problema politico esiste. Ed esiste perché i partiti, invece di guidare il paese, si fanno guidare dagli umori di un elettorato sempre più spaventato dal futuro, e sempre più disposto ad affidarsi a chi offre soluzioni semplici a problemi complessi.
Lasciamo da parte l’analisi delle ragioni di questa ansia sociale crescente: la situazione politica internazionale basterebbe a giustificarla, anche se non ne è certamente la causa principale.
Lasciamo da parte anche la banale considerazione che le soluzioni semplici a problemi complessi non solo non sono soluzioni, ma quasi sempre aggravano i problemi. Concentriamoci invece sui presunti leader che si riducono ad essere dei follower, e spesso dei follower dei più bassi – ancorché comprensibili – istinti di autoconservazione della popolazione.
L’ansia di Macron
L’elezione di Emmanuel Macron nel 2017 fu un prodotto del caso, o, per meglio dire, della stupidità del partito che avrebbe dovuto vincere le elezioni e che si intestardì su un candidato impigliato in uno scandalo di nepotismo (e per il quale sarà in seguito condannato a quattro anni di prigione, François Fillon).
Nondimeno, Macron non è stato solo un presidente by default: quello che aveva colpito favorevolmente i suoi elettori erano la sua competenza, la sua esperienza malgrado la giovane età, e la sua sostanziale estraneità a un sistema politico inceppato. E anche, forse, la sua idea centrale, che si potrebbe riassumere così: la Francia non è niente senza l’Europa.
La traduzione pratica di queste qualità non è stata, per usare una litote, all’altezza delle aspettative.
L’europeismo di Macron, seppur più convinto, non si è distanziato molto dall’idea di Europa dei suoi predecessori, che l’hanno sempre considerata come la prosecuzione della Francia con altri mezzi – un’idea che, se trasformata in pratica, complica la strada dell’Europa invece di facilitarla.
I suoi progetti di riforma sono stati oggetto dei tiri concentrici dell’estrema destra e dell’estrema sinistra (spesso concordi, come nel sostegno ai gilets jaunes) e sono diventate delle riformette, approvate attraverso meccanismi istituzionali extraparlamentari.
Spesso, la sua competenza si è manifestata sotto forma di enfatica vanità ed eccessiva fiducia. Ma quello che ha danneggiato di più il credito di Macron è stata la sua propensione a farsi trasportare dagli umori dell’elettorato alla ricerca affannosa di consenso.
La legge «sull’immigrazione» è stato l’ultimo capolavoro del genere. Rincorrendo la popolare propensione all’autoassoluzione, secondo cui sono sempre gli altri, quelli che vengono da fuori, all’origine dei nostri problemi, Macron è andato così lontano da allargare – su quell’argomento specifico – la sua maggioranza all’estrema destra di Marine Le Pen.
Non ci sarà dunque da stupirsi se, a giugno, l’estrema destra passerà all’incasso elettorale, sulla base di un’argomentazione molto sensata: fidatevi di noi, perché noi siamo stati per anni attaccati e demonizzati per aver sostenuto quello che oggi finalmente il governo fa e il parlamento approva a grande maggioranza.
L’ultima mossa: Gabriel Attal
L’ultima mossa di Macron in vista di riguadagnare consensi è stato il licenziamento di Élisabeth Borne dal posto di primo ministro e la sua sostituzione con Gabriel Attal. Ricordiamo che il primo ministro, in Francia, è solo un fusibile, cioè un dispositivo il cui scopo è proteggere il presidente, bruciandosi in caso di sovraccarichi e di cortocircuiti.
Quella sarà la mansione principale di Attal, fintanto che resterà primo ministro.
Tuttavia, secondo l’impressione di molti, Attal sarebbe stato scelto per essere non solo il delfino di Macron, ma anche una sorta di Macron 2.0, in vista di una presidenziale del 2027 in cui l’attuale inquilino dell’Eliseo non può ricandidarsi.
Per ora, però, le sole qualità del nuovo primo ministro che ricordano vagamente il Macron candidato sono la giovane età (che non è necessariamente una qualità, anzi) e la sua abilità di comunicatore.
Restano da provare la sua competenza e la sua visione strategica: finora, per dirla con la nota metafora platoniana, Attal è stato l’ombra dell’ombra di Macron, e un’esperienza di yesman non è certo una garanzia di grande individualità e tanto meno di maturità.
Inoltre, nel periodo in cui sarà in carica in qualità di fusibile, Attal potrebbe bruciare le sue chances, e non c’è dubbio che i pretendenti alla presidenza del 2027, anche in seno al suo stesso governo, faranno il possibile perché si bruci, finendo così per aiutare una Marine Le Pen seduta sulla riva del fiume in attesa di vedere i cadaveri dei suoi avversari.
In una fase storica di crescenti tensioni internazionali, di debiti pubblici astronomici e di altre minacce di crisi, la sudditanza ai sondaggi elettorali è un elemento ulteriore di squilibrio.
La competenza – nei rari casi in cui c’è – è svenduta per un piatto di lenticchie e, conseguentemente, i veri problemi restano e si aggravano.
In politica, tutto può succedere; ma le possibilità che possa essere Gabriel Attal a raddrizzare le sorti della Francia e dell’Europa sembrano, al momento attuale, alquanto scarse.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 11 gennaio 2024