In corso in Sudan la trattativa tra opposizione (che continua comunque a occupare le piazze a Khartoum) e i militari. Ci sarebbe anche un primo accordo di massima, ma le posizioni rimangono lontane. I manifestanti vogliono un governo di civili. I militari, ovviamente, non lo possono concedere.
C’è, come detto, un primo accordo che prevede la formazione di un’autorità congiunta di transizione che deve individuare la composizione del governo e un modo per insediarlo al potere e la durata del mandato.
L’autorità congiunta si è già riunita una prima volta e al termine di questo primo incontro uno dei leader della protesta di questi mesi, Mohamed Nagi al-Asam, esponente dell’Associazione dei professionisti sudanesi, ha dichiarato che la maggioranza del Consiglio dovrebbe essere di civili. I militari vorrebbero invece designare loro la maggioranza dei membri.
La trattativa è proseguita e se ne hanno notizie ufficiose: l’opposizione avrebbe proposto di formare un consiglio di 15 membri, otto civili e sette militari. Il Consiglio militare ha rilanciato: sette militari e tre civili.
In questo quadro l’Unione Africana ha dato tempo tre mesi ai militari che, al momento, continuano a guidare il Paese, per realizzare un trasferimento di poteri e dare e un governo stabile che porti a elezioni multipartitiche.
La lotta in Sudan per far uscire i militari di scena ha ormai una valenza non solo nazionale ma continentale. Simbolicamente potrebbe essere da esempio per molti paesi la cui classe politica è legata a dittatori anacronistici od oligarchie al potere da decenni.
Per la prima volta i dimostranti non si sono accontentati del rovesciamento dell’odiato dittatore al potere ma hanno chiesto – e continuano a chiedere – un governo di civili, democrazia ed elezioni multipartitiche.
Questo contributo è ripreso dal sito della rivista Africa dei padri bianchi.