L’esecutivo di Giorgia Meloni sta per approvare (approvato ieri, 3 novembre, in CDM; ndr) la proposta di revisione costituzionale sulla forma di governo da presentare al parlamento. Il centro è l’elezione popolare del presidente del consiglio dei ministri “per cinque anni”, insieme alle camere, sulla base di “un’unica scheda elettorale”.
Il testo vuole inserire in Costituzione anche la formula per l’elezione di candidati e liste di partiti, assicurando un premio di maggioranza del 55% dei seggi alla coalizione vincente.
Per il resto nulla di nuovo.
Il premier eletto riceve dal presidente della Repubblica l’incarico a formare il governo. I ministri sono scelti dal premier eletto e nominati dal capo dello Stato senza previsione del potere di “revoca”.
Il governo si presenta alle camere per ottenere la fiducia “iniziale” entro dieci giorni dalla sua formazione.
Il progetto tenta – maldestramente – di dare una qualche stabilità ai governi della Repubblica. Si dispone che, se il premier eletto e il suo governo non ottengono la fiducia iniziale delle camere, il presidente della Repubblica può reincaricarlo una seconda volta, ma se il premier eletto e il suo nuovo governo non sono approvati dalle camere, il capo dello Stato deve scioglierle.
Mai più tecnici
La soluzione è alquanto arzigogolata, se non proprio scritta male:
“In caso di cessazione dalla carica del presidente del Consiglio eletto, il presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha chiesto la fiducia”.
Per evitare che possano aversi troppi governi non nati dalle elezioni si è aggiunto un codicillo:
“Qualora il governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del presidente del Consiglio subentrante, il presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
L’intenzione sarebbe evitare che si formi un governo diverso da quello nato dalle elezioni, nonché la formazione di “governi tecnici” o “governi del presidente” come quelli di Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti e Mario Draghi.
La scelta “primo ministeriale” è un unicum. In nessun paese si prevede l’elezione popolare del premier. L’alternativa costituzionale è tra il presidenzialismo e il parlamentarismo.
In quest’ultimo, come in Italia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, il governo non è eletto direttamente ma si forma a partire da una maggioranza parlamentare, questa sì, investita dagli elettori, che dà “fiducia” al premier e al governo.
L’unico caso di un premier eletto direttamente ci fu in Israele negli anni Novanta dove, per l’esito infausto, si tornò al parlamentarismo quasi subito. La preferenza di Meloni per l’elezione diretta del premier è coerente al pedigree “cesaristico” delle destre.
S’è cercato di non modificare il ruolo di garanzia del capo dello Stato. L’elezione diretta del premier riduce lo spazio del Quirinale nella scelta del primo ministro, ma non viene meno il peso specifico del presidente della Repubblica nell’esercizio della sua diffusiva e rilevante moral suasion e dei poteri costituzionali di moderazione tra i poteri dello Stato.
L’elezione diretta del presidente del Consiglio comporta alcune contraddizioni. Si vorrebbe superare il modello parlamentare esistente e la sua naturale flessibilità (con i suoi esiti estremi: 65 governi in 75 anni), irrigidendone i processi politici retrostanti mediante norme rigide.
Si pensa di realizzare la “governabilità” col lavacro popolare del premier. Ma la stabilità del governo parlamentare, come si sa, dipende dalla politica più che dal diritto.
Le regole giuridiche possono favorirla ma non realizzarla se ne mancano i presupposti, come il potere carismatico di un leader e la forza politica dei partiti, all’interno di essi e nei rapporti con gli altri partiti della coalizione.
Il premier è eletto “per cinque anni”, però la sua durata effettiva non dipenderà da questa previsione, ma dalla tenuta della maggioranza che lo sostiene.
Al premier eletto non basta l’investitura popolare, perché deve comunque ottenere, insieme al governo da lui formato, un voto di fiducia iniziale: previsione strana, giustificabile nel modello parlamentare in cui il presidente del consiglio non è eletto direttamente, ma non quando, dopo il voto, si saprà chi è il premier votato, e che la sua coalizione otterrà il 55% dei seggi alle camere.
La previsione più contraddittoria è però la sedicente norma “antiribaltone”. In caso di dimissioni del premier eletto direttamente, non si verifica la fine della legislatura e il ritorno al voto, sulla falsariga di quanto accade nelle regioni e nei comuni. Invece, si affida il mandato a formare un nuovo governo a “un parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto”, purché si impegni a realizzare il programma di governo di quest’ultimo.
Ciò può avvenire, però, una sola volta: anche se, ad esempio, in parlamento c’è una maggioranza in grado di sostenere un governo, magari guidato dal premier eletto tornato in auge.
Una norma siffatta consente proprio quel “ribaltone” che si vorrebbe evitare, e in aperto contrasto con la previsione dell’elezione diretta del premier. Il premier eletto potrebbe governare solo pochi mesi, e il suo successore il resto dei cinque anni, alla faccia del voto popolare.
Il “premier non eletto” (anche se non un “tecnico” o un parlamentare di opposizione) potrebbe guidare una coalizione qualsiasi, anche diversa da quella del premier scelto dagli elettori.
Il vincolo ad attuare l’indirizzo politico del premier eletto è una vera e propria chimera, che ha poche possibilità di realizzarsi di fronte all’inarrestabile divenire delle necessità politiche contingenti e degli interessi trasformistici dei partiti.
Questa norma consentirà le più fantasiose “operazioni di palazzo”: come quella di far eleggere un premier per poi sostituirlo subito dopo con un subentrante più gradito ai partiti di maggioranza.
La verità è che il progetto denuncia un insuperabile dilemma: può l’elezione diretta garantire al premier di governare la sua maggioranza?
Il dilemma della stabilità
I problemi della governabilità hanno pure altre cause, prima fra tutte “la fuga del governo dal parlamento”.
La legislazione è opera di decreti-legge che il parlamento è costretto a convertire nel testo voluto dal governo, grazie alla prassi illegittima dei maxi-emendamenti su cui l’esecutivo pone la questione di fiducia, obbligando la maggioranza a condividerla sempre, perché, altrimenti, si esporrebbe agli effetti imprevedibili di una crisi di governo che potrebbe portare allo scioglimento anticipato.
Nel progetto di riforma questi problemi non vengono affrontati. Tutto si risolve nella formula dell’elezione diretta, considerata la panacea di tutti i mali, nonostante le contraddizioni del testo.
Sulla riforma costituzionale grava poi l’ipoteca di un referendum costituzionale che, molto probabilmente si celebrerà, se, com’è prevedibile, in parlamento il “sì” verrà dalla sola maggioranza di destra.
Tanto rumore per nulla? Non penso.
Il negoziato sulle riforme ha un forte senso politico contribuendo a rinsaldare le forze della maggioranza sui tavoli che contano di più (anche solleticando le aspirazioni degli altri leader di accedere a palazzo Chigi grazie alla norma sul “ribaltone”).
Essenziale è l’elezione diretta del premier che, però, prelude non ad un mero aggiornamento, ma al superamento del governo parlamentare.
Il fine sotteso alla riforma non è permettere una maggiore coesione politica tra maggioranza parlamentare e governo, ma dividere l’una e l’altro, assegnando al premier eletto una legittimazione politica che, ergendolo al di sopra delle parti, dovrebbe dotarlo del potere decisivo.
Un “premieratino”, dunque, inutile per superare i problemi della governabilità, pericoloso per gli equilibri politici e istituzionali del Paese.
- Pubblicato il 3 novembre sul blog di Stefano Feltri Appunti (qui).
In riferimento alla universale percezione delle minacce belliche nucleari in questi giorni caldi e…… ai “sogni proibiti” di
chi si è preso la responsabilità di governarci ricordo la frase di A. Einstein:
– l’uomo ha scoperto la bomba atomica, però nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi-
Pace e bene a tutti per un lunghissimo futuro di Umanità