Una delle fatiche che vive la Chiesa (non da oggi) è quella di saper comunicare con il mondo. Come raccontare il suo messaggio sempre antico e sempre nuovo in forme comprensibili, capaci di intercettare le esigenze dei tempi che stiamo vivendo? Questo è vero anche in politica, dove i cristiani impegnati, negli ultimi anni, si sono ritrovati a vivere una doppia solitudine, nella difficoltà di comunicare all’interno e all’esterno della comunità cristiana. Si capisce che non è solo questione di parole: dare un nome alle cose che si vivono significa trovare risposte adeguate ai cambiamenti della società, senza rinunciare alla fede, ma anzi trovando, a partire da essa, la giusta chiave di interpretazione.
Il primo messaggio che arriva da Trieste sono proprio queste parole nuove. La forma e il contenuto delle relazioni di questi giorni sono stati molto diversi da ciò che siamo abituati a sentire nella politica nazionale, ma anche da ciò che ci si potrebbe immaginare da un classico contesto ecclesiale. La Chiesa italiana ha voluto lanciare messaggi forti e chiari. Sono state pronunciate parole nuove, coraggiose, concrete, espressione di un Paese generativo che esiste già ma che spesso non ha voce. Parole che aprono al dialogo, che mettono in moto percorsi. I relatori erano bilanciati per genere e per età, e questo ha consentito di mettere in luce punti di vista diversi ma appartenenti a una stessa visione di bene comune.
Una visione che ci porta direttamente al cuore della democrazia, perché essa non è solo un metodo o un sistema intercambiabile con altri. La democrazia è un valore in sé, il sistema migliore per far «fiorire» le persone, dare loro la possibilità di essere libere e trovare la propria realizzazione. Per curare il cuore «infartato» (definizione di papa Francesco) della democrazia, possiamo ricorrere alle scorciatoie di leadership carismatiche, populismi o tecnocrazie, finendo però per non risolvere e addirittura aggravare la situazione. Oppure possiamo andare più in profondità e scoprire che, alla radice, c’è il problema della partecipazione che è l’esatto opposto dell’individualismo e della «cultura dello scarto».
Critica delle soluzioni leaderistiche
Partecipazione è stata in effetti una delle parole chiave della Settimana. Ripetuta nella canzone La libertà di Gaber che faceva da cornice agli incontri, più volte ricercata nella preoccupazione per la drammatica crescita dell’astensionismo. Fino ad arrivare a una conclusione evidente ma mai messa adeguatamente in luce: le persone non partecipano perché non vengono ascoltate né coinvolte. Non è un caso che i luoghi in cui si registrano grandi tassi di lontananza dal voto e dalle istituzioni siano proprio quelli più marginali.
Ritorna, inevitabile, l’andare alle periferie di papa Francesco. «Dio – ha spiegato il pontefice nell’omelia di domenica – si nasconde negli angoli scuri della vita della nostra città. La sua presenza si svela proprio nei volti scavati dalla sofferenza e laddove sembra trionfare il degrado. E noi, che talvolta ci scandalizziamo inutilmente di tante piccole cose, faremmo bene invece a chiederci: perché dinanzi al male che dilaga, alla vita che viene umiliata, alle problematiche del lavoro, alle sofferenze dei migranti, non ci scandalizziamo? Perché restiamo apatici e indifferenti alle ingiustizie del mondo? Perché non prendiamo a cuore la situazione dei carcerati, che anche da questa città di Trieste si leva come un grido di angoscia? Perché non contempliamo le miserie, il dolore, lo scarto di tanta gente nella città? Abbiamo paura, abbiamo paura di trovare Cristo, lì». L’amore politico ha bisogno di coraggio e radicalità, come Gesù che «è rimasto fedele alla sua missione, non si è nascosto dietro l’ambiguità, non è sceso a patti con le logiche del potere politico e religioso».
Ma proprio qui occorre fare un ulteriore avanzamento: «La democrazia – ha spiegato sempre il papa, nel discorso al Centro congressi – richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal “fare il tifo” al dialogare». È forte il richiamo a lasciare le ideologie «seduttrici», a rifiutare la politica formato talk-show o social network e a ricercare la radice di un amore per la persona e la comunità. Un amore che parte dal «noi», perché «democrazia – ha detto Mattarella nel suo intervento iniziale – è camminare insieme».
Se ci pensiamo è una direzione opposta rispetto a quella indicata dalle tendenze di personalizzazione che da anni caratterizzano il quadro nazionale e non solo, con partiti che si sono trasformati in comitati elettorali al servizio di un unico leader, il quale fa e disfa alleanze, sceglie parlamentari e collaboratori sulla base della fedeltà, trascura l’attenzione per i territori e si dedica alla ricerca di una immedesimazione con le emozioni della gente.
E qui sta uno dei motivi di scontro con l’attuale maggioranza di governo: la Chiesa italiana rifiuta le soluzioni leaderistiche, gli uomini (o le donne) della Provvidenza e chiede invece di ripartire dal modello dell’assemblea costituente. Meno premierato, più democrazia sostanziale, per dirla con una formula. La democrazia però non si improvvisa, c’è bisogno di battersi perché non ci possano più essere «analfabeti di democrazia», secondo la definizione del presidente Mattarella. Un obiettivo che chiama alle proprie responsabilità anche la Chiesa.
Percorsi di guarigione
Non basta trovare le parole giuste e nemmeno individuare la radice del male e una possibile cura. Occorre tracciare dei percorsi per arrivare a una guarigione. Nasce da qui la «rete di Trieste»: se la parola forse più pronunciata negli ultimi anni è stata populismo, la sfida è invece ripartire dal popolarismo, mettendo in relazione realtà associative virtuose e amministratori locali.
Circa ottanta tra sindaci, consiglieri comunali e persone attivamente impegnate in politica, di diverse provenienze geografiche e politiche, hanno firmato una dichiarazione di intenti, con l’impegno di rivedersi e dare vita a un dialogo sempre più profondo e virtuoso. Si parte dalle istituzioni locali per mettere in relazione le esperienze migliori e le buone pratiche, provare a diffondere il vento di democrazia che ha soffiato forte a Trieste.
Nel documento si fa riferimento, in particolare, a tre impegni concreti: continuare il lavoro di scambio su temi concreti per arrivare a un incontro nazionale nel prossimo autunno; assumere i processi, gli obiettivi e i metodi della Settimana sociale di Trieste, con particolare riferimento a giustizia sociale e innovazione del welfare, sostenibilità ambientale, centralità della famiglia e della scuola, accoglienza e integrazione, cura e valorizzazione degli strumenti di valorizzazione democratica; fare del magistero sociale di papa Francesco l’elemento unificante per l’impegno dei cattolici in politica.
Non si tratta di un fantomatico «partito dei cattolici», soluzione che appare fuori fuoco e fuori luogo. Non occorre contarsi ma contare, non occorre un partito, ma piuttosto uno spartito da consegnare a un Paese che appare a tratti senza voce e senza speranza. E di fronte a questo compito, la Chiesa e i cattolici non possono tirarsi indietro.