La recente sentenza di archiviazione per le minacce libiche a don Mattia Ferrari da parte della procura di Modena (qui su Avvenire) richiama le battaglie civili di don Milani. Il salvataggio in mare dei migranti ricorda la difesa del prete di Barbiana degli obiettori di coscienza.
Ci sono almeno tre buoni motivi per rileggere oggi la Lettera ai giudici, autodifesa scritta nell’ottobre del 1965 da don Lorenzo Milani, impossibilitato per la malattia a partecipare di persona al processo romano intentato contro di lui con l’accusa di apologia di reato, in quanto aveva reagito, insieme ai suoi ragazzi, a un comunicato, pubblicato sul quotidiano La Nazione del 12 febbraio 1965, sottoscritto da una ventina di cappellani militari in congedo della regione Toscana.
Questi erano intervenuti su un tema molto caldo e divisivo in quegli anni, il diritto a servire la patria senza armi, cioè a fare un servizio civile alternativo, rifiutando di prestare il servizio militare armato, allora obbligatorio per legge. Una dozzina di righe nelle quali l’obiezione di coscienza viene definita «un insulto alla Patria e ai suoi caduti, un’espressione di viltà, estranea al comandamento cristiano dell’amore». Nell’aula di Barbiana vennero lette queste parole di disprezzo verso i 20 ragazzi italiani che stavano scontando in carceri umide e malsane la fedeltà alla loro coscienza.
Una grande lezione
Racconta don Milani: «Io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. (…) Dovevo ben insegnare loro come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa». «E davvero – ricorda con commozione Paolo Landi, ex alunno di Barbiana – la risposta ai cappellani militari divenne l’occasione (o il pretesto) per una grande lezione di don Lorenzo. Si può dire che tutto il processo divenne una cattedra per fare scuola».
Quando ci si trova davanti a un’ingiustizia non si può tacere e si deve reagire non con un’invettiva o con ingiurie e posizioni avventate, ma con risposte argomentate, efficaci e rigorose, supportate da fatti reali e da riflessioni etico-politiche, poiché «ognuno deve sentirsi responsabile di tutto». Nacque così la Lettera ai cappellani militari, nella quale viene discusso il concetto di «guerra giusta», tema terribilmente attuale, e si rivendica il primato della coscienza contro i «cultori dell’obbedienza cieca». Per aver scritto questa lettera don Milani viene processato e nella Lettera ai giudici spiega le sue ragioni.
Il primo motivo per cui rileggerla è che proprio in questi giorni, precisamente il 15 dicembre, ricorre il 50° dell’approvazione della legge Marcora del 1972 che permise l’obiezione di coscienza al servizio militare armato come magnanima concessione del Ministero della Difesa da cui continuavano comunque a dipendere anche coloro che sceglievano il «servizio militare non armato», cioè il servizio civile.
L’intenzione punitiva nei confronti di questi ultimi era dimostrata dagli otto mesi in più di durata del servizio. Fu comunque un primo passo importante di un cammino che porterà nel 2004 all’abolizione del servizio di leva obbligatorio e al servizio civile volontario. La Lettera ai cappellani militari e la Lettera ai giudici di don Milani ne rappresentarono certamente un passaggio importante, all’interno di un processo di più vasta portata che coinvolse particolarmente Firenze, “città laboratorio” (Giorgio La Pira) sui temi della pace e della non violenza.
Il secondo motivo che ci porta a rileggere la Lettera ai giudici è che dà un’indicazione molto chiara per riconoscere se una legge è giusta oppure sbagliata: tanti ex alunni di don Milani, soprattutto quelli che hanno ricoperto cariche pubbliche importanti, hanno più volte dichiarato quanto questo criterio sia stato per loro valido e di grande utilità. Le leggi sono giuste «quando sono la forza del debole», non sono giuste «quando sanzionano il sopruso del forte». E allora bisogna battersi per cambiarle.
Due anni dopo, mentre era in corso il processo di appello a suo carico, don Milani insieme ai suoi ragazzi scrive in Lettera a una professoressa che «non si può amare creature segnate da leggi ingiuste e non volere leggi migliori». È quanto fanno con coraggio e determinazione tante persone che, mettendo la ricerca della verità e della giustizia prima del proprio interesse, quando incontrano sul loro percorso e in base alle loro scelte gravi violazioni di diritti umani, specie se nascoste o travisate, sentono in coscienza di non poter tacere e le denunciano, sensibilizzando l’opinione pubblica e informando con onestà e con dati alla mano.
L’archiviazione e le domande
Se la straordinaria scuola di Barbiana, debitrice e in continuità con la precedente esperienza di San Donato di Calenzano, non è esportabile ed è morta pochi mesi dopo il suo maestro, restano validi molti dei suoi princìpi fondanti attraverso i quali possiamo ancora leggere il nostro presente e valutare criticamente vicende, sentenze e scelte politiche.
Ed ecco il terzo motivo per cui guardare a don Milani e alla sua autodifesa. È notizia di oggi che la procura di Modena ha chiesto l’archiviazione del fascicolo relativo a don Mattia Ferrari, il sacerdote modenese in prima linea nella difesa dei migranti, ritenendo irrilevanti le minacce della mafia libica nei suoi confronti.
Cappellano della Mediterranea Saving Humans, nel 2019 a bordo della Nave Mar Ionio ha prestato soccorso ai migranti in mare e si impegna in prima persona nel denunciare le gravissime violazioni dei diritti umani che avvengono di continuo nelle rotte dei migranti, nei lager della Libia, tra le onde del Mediterraneo. Insieme al giornalista Nello Scavo, don Mattia è bersaglio di attacchi, diffamazioni e minacce online, da parte di un account twitter sospettato di essere «portavoce della mafia libica legato ai servizi segreti di diversi paesi», come attestano inchieste giornalistiche e atti parlamentari, tanto che è stato posto sotto radio sorveglianza per volere del Comitato provinciale per la sicurezza dei cittadini. Il pubblico ministero, tuttavia, ha dichiarato che le minacce e le parole piene di odio sono «prive di rilevanza penale da qualunque parte esse provengano».
Ma c’è un altro filo che collega la vicenda di don Mattia a don Milani, oltre all’alto prezzo che sempre deve pagare chi segue la propria coscienza e si esprime liberamente in sostegno degli ultimi e degli sfruttati e del dovere di soccorrerli. Don Milani venne definito una campana stonata che andava zittita nel «penitenziario ecclesiastico» tra i monti del Mugello proprio perché il suo modo così insolito (e così radicalmente evangelico!) di fare il prete, interessandosi dei problemi concreti delle persone e aiutandole a prendere coscienza dei propri diritti, suscitava perplessità, diffidenza, invidie nei preti vicini e sospetto nei benpensanti e notabili del paese, nei proprietari di aziende o di terre.
Il prete sia «riservato e silenzioso»
Si resta sconcertati nell’apprendere che nella richiesta di archiviazione della procura di Modena viene sottolineato che se un prete si espone attraverso «il suo impegno umanitario (e latamente politico) sul terreno dei social o comunque del pubblico palco ben diverso dagli ambiti tradizionali – riservati e silenziosi – di estrinsecazione del mandato pastorale», si deve poi anche aspettare di provocare e subire reazioni.
Velatamente, sembra di leggere in queste parole un consiglio prudenziale a don Mattia di occuparsi un po’ meno di problemi sociali e pericolosamente politici e di fare il prete alla vecchia maniera… di essere un po’ meno scomodo e scomodante… proprio come si rimproverava a don Milani.
Ma le ingiustizie devono essere denunciate e gli oppressi devono essere liberati: niente è più lontano dal lieto annuncio del Vangelo di quel terribile «sopire e troncare, troncare e sopire» che il conte zio, nel capitolo XIX de I Promessi Sposi raccomanda al padre provinciale dei cappuccini per costringerlo a far allontanare padre Cristoforo… un altro religioso che se l’è proprio andata a cercare…