Il nazionalismo occidentale anti-europeo

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meloni e musk

A modo suo è interessante il discorso di Giorgia Meloni pronunciato all’Atlantic Council, un think tank americano, che le ha conferito uno dei premi Global Citizenship Award consegnato da Elon Musk.

Già così la situazione si presta a considerazioni bizzarre: la leader patriottica Giorgia Meloni, che rivendica le virtù del «nazionalismo occidentale» e si oppone a dare la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia viene celebrata per aver fatto molto per la «cittadinanza globale» ed è introdotta da un sudafricano che cerca di influenzare le elezioni presidenziali americane grazie a piattaforme digitali che gli danno un potere di ingerenza in ogni democrazia occidentale. Cioè che vuole imporre le sue esigenze personali e aziendali su quelle delle «nazioni».

Comunque, stiamo al discorso, che è uno dei tentativi più completi di Giorgia Meloni di presentare una cornice ideologica al suo operato che invece − in Europa come in Italia − viene spesso presentato soltanto all’insegna del pragmatismo.

Farò uno sforzo per non essere troppo sarcastico, anche se è bizzarro sentire che la premier trova la definizione del proprio operato «nazionalismo occidentale» in un articolo di un certo Anthony Costantini su Politico.eu. Neppure lei sa chi sia, perché è soltanto uno studente di dottorato dell’Università di Vienna.

Una destra del passato

I riferimenti culturali di Meloni citati sono sempre gli stessi, perché la destra italiana sembra non leggere un libro da una trentina d’anni (neppure quelli che scrivono i suoi intellettuali): Giorgio Prezzolini, che con un’iperbole diventa «il più grande intellettuale conservatore del ventesimo secolo» italiano, e poi l’ex presidente americano Ronald Reagan e il filosofo Roger Scruton.

Sono riferimenti culturali di tutta un’altra stagione politica, quella dell’America pre e in parte post-undici settembre, roba da Foglio di Giuliano Ferrara dei primi anni Duemila.

Niente di male, per carità, ma la destra americana di oggi che piace a Elon Musk ha rinnegato quei riferimenti: non predica ottimismo reaganiano, ma cupo declinismo, economico, morale, demografico; non cerca nella religione o nella filosofia le coordinate dell’Occidente, ma nel consumo; non cita gli intellettuali, ma li deride, e omaggia la ricca ignoranza dei titani della Silicon Valley come è appunto Musk.

L’unico contributo originale di Giorgia Meloni a questo pantheon conservatore pare la citazione di Michael Jackson, «mio professore di inglese»: ma quando Meloni ascoltava Man in the Mirror alla fine degli anni Ottanta, Michael Jackson era soltanto un cantante nero che voleva diventare bianco per avere più successo (quindi ci sta che rientri nelle coordinate culturali di Meloni).

Ma da trent’anni, anche e soprattutto dopo la sua morte nel 2009, Michael Jackson è inseguito da accuse di abusi su minori (assolto in vita, ma la vicenda giudiziaria continua con nuove denunce). Meloni forse non se ne preoccupa, ma negli Stati Uniti è un po’ come citare un film del molestatore Harvey Weinstein.

Insomma, Meloni non sembra capire che oggi è impossibile stare al contempo con Musk e Reagan, con l’Atlantic Council e con la festa di Atreju. Qualche anno fa i Cinque stelle erano ben consapevoli di queste incompatibilità e, nella loro fase populista, prima che Giuseppe Conte scoprisse i salotti internazionali, stavano ben alla larga da questi raduni «globalisti».

Nazionalismo anti-europeo

L’aspetto però più originale, o quantomeno onesto, del discorso di Meloni è il fatto che per lei l’Italia si muova su due livelli: quello della «nazione» e quello dell’Occidente:

«Per me, l’Occidente è più di un luogo fisico. Con la parola occidente noi non definiamo semplicemente i Paesi che hanno una specifica ubicazione geografica, ma una civiltà costruita nei secoli con il genio e i sacrifici di moltissimi.

L’Occidente è un sistema di valori in cui la persona è centrale, gli uomini e le donne sono uguali e liberi, e quindi i sistemi sono democratici, la vita è sacra, lo stato è laico e basato sullo stato di diritto.

Vi chiedo e mi chiedo: sono valori dei quali dovremmo vergognarci? Sono valori che ci allontanano dagli altri o che ci avvicinano agli altri?».

L’Europa è citata di sfuggita, l’Unione Europea mai. Quando Meloni allude a un’Italia che dialoga con gli Stati Uniti chiunque sia il presidente (messaggio di apertura a Donald Trump) o che interagisce con il Sud Globale dove si gioca – secondo lei – la competizione tra l’influenza delle democrazie e degli autoritarismi, lo fa sempre in un’ottica nazionale.

Cioè è l’Italia, Roma, a muoversi, a difendere i valori dell’Occidente, a spiegarli agli africani – implicitamente presentati come al contempo non-civilizzati e in vendita al miglior offerente – per tenerli lontani da Cina e Russia.

L’Unione Europea non esiste, il «patriottismo nazionale» di Meloni è implicitamente – se non esplicitamente – anti-europeo.

Perché la premier sembra concepire le relazioni internazionali come uno stato di natura in cui ci sono soltanto le nazioni, l’Italia è piccola ma orgogliosa e quindi il massimo che può sperare è presidiare la propria sfera di influenza post-coloniale in Africa e ottenere la legittimazione dai lord protettori ai quali demanda la propria sicurezza, previo omaggio che riconosce i rapporti di forza (Musk, Trump ecc.)

Nel discorso di Meloni non ci sono le policy, non è rilevante il risultato, ma soltanto l’orgoglio che si prova nello sforzo: se la politica è una battaglia, quello che conta per Meloni − in una coerenza con certi slogan fascisti − è combattere con onore, più che vincere. Una buona morte è un esito più auspicabile che un successo ottenuto con sotterfugi e inganni.

«Noi sappiamo come affrontare le impossibili sfide che quest’epoca ci mette di fronte solo quando impariamo dalle lezioni del passato. Difendiamo l’Ucraina perché abbiamo conosciuto il caos di un mondo nel quale prevale la legge del più forte. Combattiamo i trafficanti di esseri umani perché ricordiamo che secoli fa abbiamo combattuto per abolire la schiavitù. Difendiamo la natura e l’umanità, perché sappiamo che senza l’opera responsabile dell’uomo non è possibile costruire un futuro più sostenibile».

La legittimazione del potere

Questo forse è il vero limite della cultura di governo di Giorgia Meloni e che le impedirà di trasformare queste sue vaghe intuizioni in una cultura di governo: la politica, specie nella gestione del potere, non è soltanto testimonianza. È capacità di costruire compromessi e raggiungere risultati.

Mentre per la presidente del Consiglio rimane uno strumento di legittimazione: di singole persone, di esperienze culturali, di storie politiche tenute ai margini.

Per Giorgia Meloni il premio dell’Atlantic Council e il rapporto con Elon Musk non sono mezzi – per portare investimenti in Italia, per discutere strategie sull’Ucraina, come scrivono certi giornali – ma l’obiettivo ultimo della sua azione politica. Sono equivalenti alla mostra su J.R.R. Tolkien alla Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma: indicano che la destra ha vinto e adesso tutti devono prendere sul serio le sue manifestazioni esteriori, i suoi esponenti, i suoi riferimenti culturali.

Questa era la missione storica della quale Giorgia Meloni si sente investita. Ora che l’ha compiuta non ha più niente da dire o da fare, come si evince dal suo discorso.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 24 settembre 2024
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