Britannia exit. In sintesi: Brexit. L’evento s’è compiuto. Per quelli che lo volevano e per quelli che lo temevano. Per quelli che vanno e non sanno dove; e per quelli che restano e non sanno come.
È persino banale dire che c’è da riflettere. Ed anzi che bisognava farlo prima. Fin troppo agevole compilare il catalogo degli errori. Di valutazione e di calcolo. A cominciare, per stare alla cronaca, con l’illusione del premier Cameron di ammansire i secessionisti strappando all’Unione Europea qualche concessione autonomistica, illusione condivisa dai governanti europei disposti a concedere qualcosa pur di allontanare la rottura. Ed a seguire, per immergersi nella storia, dal tracciato particolarissimo seguito dai governi della Gran Bretagna fin dall’inizio del processo europeo, secondo la regola di contrastare ad ogni passo l’avvento di qualcosa che avesse il sapore dell’unità politica.
Dal profondo del cuore
La prima pietra miliare che si incontra su questo tracciato è la reazione del primo ministro Antony Eden all’idea di dar vita alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nel remoto 1948: «Questa è una cosa che sappiamo, nel più profondo del nostro cuore, di non poter fare». Dove le profondità del cuore si intrecciavano sicuramente con gli interessi di una potenza che allora parlava a nome di un impero mondiale non ancora scalfito dalla ribellione delle colonie.
Ma anche dopo la fine di quell’impero come entità politica (a parte la simbologia monarchica del Commonwealth) il cuore britannico non registrò mai battiti di passione europea. L’idea dell’unione doganale fu condivisa in nome della libera concorrenza ma con una riserva di fondo sugli eventuali oneri da sopportare in nome dell’unità. Fu Margaret Thatcher a pretendere in modo brusco («rivoglio i miei soldi») la restituzione di quel che il Regno Unito aveva versato all’Unione. La cui esistenza – questo il messaggio – poteva comportare vantaggi ma non oneri al di qua della Manica. Come dire sì al tunnel sottomarino, ma non ad un accenno di solidarietà continentale.
Naturalmente i freni alla dinamica espansiva dell’Unione non sono imputabili solo a Londra. Anche Parigi deve ammettere le sue colpe a proposito, ad esempio, della bocciatura per referendum della pur striminzita Costituzione europea, in nome di un misto di ostilità che variava dalle “radici cristiane”, rigettate in nome della laicité, al panico per l’idraulico polacco che ruba il lavoro ai francesi. Ma i governi inglesi avevano rifiutato di impadronirsi di alcuni strumenti, pur parziali e limitati, che nel frattempo segnavano il cammino del processo unitario. Né l’Euro né il trattato di Schengen avevano trovato il plauso e il favore dei governi inglesi. La cui posizione nei consessi comunitari funzionava sempre da freno, in collegamento con tutte le altre componenti che si distinguevano per un esercizio tutt’altro che virtuoso della prudenza.
L’indolenza dell’Unione
Sarebbe però un errore l’attribuire alla sola Gran Bretagna la colpa della debolezza dell’Unione. Se si eccettua il momento alto in cui l’iniziativa italiana di Altiero Spinelli fece intravedere la possibilità di un vero consolidamento istituzionale (e si può segnalare anche qualche sortita del Parlamento nel sollecitare sbocchi di questo genere) si deve riconoscere che gli organismi europei si sono dedicati in genere più all’amministrazione che alla politica, più alla gestione delle cose che all’attuazione di progetti.
È da discutere se questo sia da attribuirsi allo straripamento della egemonia tedesca o all’insufficienza delle proposte innovative. Sicuramente c’è stata una lacuna di fondo nella ricognizione, sul piano storico, dei motivi per cui ad un certo tornante degli eventi l’Unione Europea era apparsa a molti come una soluzione possibile e desiderabile.
Nel suo poderoso saggio su Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 ad ad oggi (Le Scie, Mondadori 2005) uno studioso inglese di cose europee, Tony Judt, aveva sostenuto che «l’Unione Europea può essere una risposta alla storia, ma non potrà mai prenderne il posto». E aveva ravvisato nei comportamenti comuni un’incapacità di comprendere come il passato dell’Europa «continui ad avere un significato di ammonizione e di valore morale». Come dire che, separate da questa narrazione, che comprende i comportamenti collettivi di fronte alle tragedie degli ultimi decenni, le motivazioni della costruzione europea appaiono gracili se non inesistenti. Né basta ricordare alla vigilia della scelta decisiva che la sola esistenza dell’Europa ha garantito la pace e la prosperità per molti, inclusi «i nostri figli».
Tanti piccoli exit?
Questa esortazione alla storia comune implica anche un confronto sui temi dell’attualità, compreso, mentre si avvia la procedura di divorzio della Gran Bretagna, quello dell’atteggiamento nei confronti delle migrazioni e anche quello della tentazione imitativa già presente in varie contrade. Una volta, ai tempi del comunismo, si diceva: «E noi faremo come la Russia»; ora si pensa di produrre tanti piccoli “exit” in nome di ritrovate pulsioni a sostegno dell’ìindipendenza delle nazioni; e ciò nel momento stesso in cui gli eventi dell’economia e della società confermano che il concetto di interdipendenza non è un’astrazione o un miraggio.
Se vi fosse una logica negli avvenimenti umani, oggi ci sarebbero le condizioni affinché tutti i paesi e i popoli del resto d’Europa riscoprissero le ragioni più solide e convincenti dell’intuizione unitaria e si applicassero a rilanciarne l’attualità e la necessità in presenza delle tentazioni neonazionalistiche, autarchiche e razziste che si manifestano al di qua e al di là dell’Atlantico.
In un’acuta analisi della vigilia, apparsa su “Italiacaritas” (giugno 2016) Alberto Bobbio sosteneva che «Londra vuole che l’Europa resti così com’è», a tale fine avendo predisposto le cose sia nell’eventualità di remain sia in quella di leave. Può essere una constatazione, ma può essere anche una sfida. Sarebbe bello che l’Europa si muovesse; e che una volta tanto l’Inghilterra dovesse … inseguire.