Con la discesa in piazza delle Sardine l’offerta politica italiana si arricchisce di un nuovo soggetto la cui natura va decifrata ma che intanto riesce a fare una cosa che in politica conta; fa rumore, molto rumore.
Intanto per il nome: che incuriosisce. Davvero una trovata intitolare un’impresa che comunque sa di politica a un genere di pesce non pregiato ma saporito.
E che, quando si trasferisce in allegoria tra gli umani, fa pensare a gruppi di persone che si accalcano, cioè stanno pigiate in un ambiente stretto e delle quali si usa dire che «stanno pigiate come sardelle».
Desiderio di collegamento
La cosa che viene subito in mente, dopo l’dea di Grillo che voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, è quella di un’entità che, viceversa, pur restando nel campo ittico, non ha una vocazione così dirompente, ma piuttosto un desiderio di collegamento tra società civile e stato che non esita ad autodefinirsi «corpo intermedio». A modo suo, naturalmente. Cioè non strutturato come un partito o un sindacato ma ugualmente portato ad “esserci” e a “contare”.
Se poi sarà davvero così o se invece anche per questa formazione ci sarà una torsione istituzionale verso la forma partito o altrimenti sarà da vedere; ma intanto vale l’annuncio di una volontà di presenza e di una possibilità di un’azione nuova e originale.
Precedenti da considerare
Non che si tratti di una novità in senso assoluto. Almeno come tentativo l’idea di un trasferimento di potere dalla società civile alla politica con o senza un’intermediazione strumentale, è antica quanto la storia del nostro paese. Soprattutto nella vicenda dei cattolici sociali e poi dei cattolici democratici (ma anche in alcune contrade dell’esperienza socialista) ebbe ampia cittadinanza la figura di uno stato come insieme di formazioni sociali qualificate, o per funzione o per rappresentanza sociale, fino a quella delle libere corporazioni sopraffate poi dall’obbligo imposto dal fascismo.
Ma anche dopo l’avvento del regime democratico repubblicano non mancarono tentativi di stabilire una modalità di intermediazione tra forme di politica-non partitica e funzione politica attribuita nativamente ai partiti.
Una particolare attenzione meritano tuttavia in questo campo fenomeni di animazione, il primo dei quali è senza dubbio quello dell’“Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini la cui carica antipartitica (che poi era contro l’egemonia dei partiti esistenti subito dopo la liberazione) venne rapidamente assorbita nella logica di una supremazia dei partiti stessi come detentori legittimati della funzione di esercizio del potere.
La critica alla repubblica di partiti, che ebbe corso sotto il profilo della carenza di ricambio democratico e si risolse nella domanda di riforme istituzionali ed elettorali, poteva anche avere uno sviluppo diverso. Ed in parte lo ebbe, almeno dopo l’autunno caldo del 1969, con il rilancio dell’unità sindacale e del ruolo del sindacato come soggetto politico, avendo non a caso su tale pista due protagonisti cattolici come Livio Labor e Pierre Carniti.
Ma già prima lo stesso Labor, come presidente delle Acli, aveva patrocinato la funzione dell’Associazione dei lavoratori cristiani come quella di «un movimento di elaborazione culturale e di pressione sociale» inizialmente finalizzata a qualificare in senso sociale l’azione della Democrazia Cristiana, verso la quale si rivolgeva allora la domanda del mondo cattolico, con proposte più o meno ultimative dei diversi protagonisti. Si pensi, ad esempio, al tono sempre perentorio con cui Paolo Bonomi patrocinava le istanze del mondo contadino.
Un’esperienza personale
Qui posso inserire una breve memoria di una mia personale esperienza come Presidente delle Acli.
Si era all’indomani del reiterato divieto ecclesiastico di seguire la pista della scelta di classe per il rinnovamento della società (e quindi di dedicare l’attenzione delle Acli alla classe operaia ritenuta fisiologicamente egemone nel mondo del lavoro).
Si pensò di elaborare un’impresa più ambiziosa anche se destinata allo smacco, come quella che ebbi a definire della «crescita della società civile per la riforma della politica». Dove la società civile era intesa non già come un corpo già configurato come entità nativamente superiore al mondo operaio e contadino, ma come un insieme di pulsioni non elaborate bisognose di un’elaborazione, appunto, politica per potersi presentare nella scelta di movimento e non di partito, al confronto con i problemi e con i soggetti operanti nelle istituzioni della politica come configurati costituzionalmente.
Il fatto che tale impresa non ebbe successo, vuoi per l’ostilità degli interlocutori vuoi per debolezza propria (tendenza ad approfittare dei varchi concessi dai partiti piuttosto che capacità di aprirne dei propri) ha comprensibilmente prodotto una ritirata da quel campo e con essa ad un’istanza formativa di stampo politico quale sarebbe stata imposta nello schema originario.
Il discorso andrebbe ampliato con un riferimento almeno essenziale alle sorti del movimento (al plurale) del 1968 quando sembrò a tanti che una forza nuova, culturalmente avveduta perché forgiata nel sapere universitario, avrebbe realizzato una guida forte e stabile in tutto l’Occidente capitalistico determinandone un cambiamento radicale.
Dopo Moro e Berlinguer
Per l’Italia, poi, rimase al palo anche l’unico tentativo possibile di dare alla crisi una soluzione riformista come quella legata all’intesa tra Moro e Berlinguer, ossia tra le due principali forze storiche del panorama italiano, entrambe le quali comunque non erano particolarmente aperte verso ciò che nella società civile si tentava di organizzare. E ciò anche se, a suo tempo, Moro aveva riconosciuto la rilevanza di tali movimenti giungendo a dichiararli «politicamente influenti».
Ora che tanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere (ma anche sotto quelli del Reno e di tanti altri fiumi europei, per tacere della Manica) che cosa ci si può attendere da questo moto delle Sardine che ha occupato stampa e tv nelle scorse settimane?
Pretese e propositi
Dai discorsi di piazza che hanno sovrastato il frastuono ricaviamo che il nuovo movimento “pretende” (e il verbo è già significativo) «che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare» (vuol dire che denuncia quelli che fanno il contrario), che «chi ricopre la carica di ministro comunichi solo nei canali istituzionali».
Pretende inoltre «trasparenza da chi fa la politica dei social network» e che «il mondo dell’informazione traduca questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti» e, in più, «che la violenza venga esclusa dai toni della politica» ed anzi «che la violenza verbale venga equiparata a quella fisica». Con un’unica richiesta finale che però ha il tono di un programma: «Ripensare, anzi abrogare, il decreto sicurezza» E con un annuncio che sta tra la promessa e la minaccia: «Da domani inizia la fase due». Come dire: aspettate e vedrete.
***
Per ora ci sembra di aver ascoltato, oltre le intimazioni, solo l’invocazione di una politica meno urlata, meno rissosa, più lontana dalla propaganda e più aderente ai problemi delle persone. E sappiamo che dire “solo” non vuol dire “poco”.