Il programma Che sarà di Serena Bortone su RAI 3 registra circa 700.000 spettatori a settimana, che per gli standard televisivi non sono molti. Se Antonio Scurati avesse letto il suo breve monologo sul fascismo, sarebbe passato quasi inosservato. Un paio di minuti e via.
E invece la conduttrice ha denunciato l’annullamento del monologo e così gli ha dato una enorme visibilità: è stato letto in TV, oggi sta su tutti i giornali, sui social, qualcuno correrà anche a comprare la trilogia di libri su Benito Mussolini di Scurati, o forse il suo ultimo saggio (di minore impatto) Fascismo e populismo, per Bompiani.
A leggere gli articoli sul caso non è ben chiaro neppure se la censura ci sia stata: la versione di Repubblica è molto diversa da quella del Corriere. Decisione dall’alto per ragioni politiche? Un negoziato confuso dalla trattativa sui soldi: 1.800, 1.500 euro o niente perché Scurati doveva promuovere il suo libro e l’imminente serie su Mussolini?
Meritorio il lavoro di cronaca dei giornalisti che provano a ricostruire cosa è successo nei flussi di mail, messaggi, interlocuzioni interne alla RAI. Chi ha a che fare con la televisione pubblica sa che sono plausibili tutte le versioni: sia l’input politico diretto, sia il pasticcio amministrativo, sia una qualunque combinazione dei due elementi.
Ma ormai poco importa, prima la denuncia di Serena Bortone poi la scelta di Giorgia Meloni di pubblicare il monologo di Scurati su Facebook hanno reso irrilevanti i fatti sottostanti. Restano però due punti da discutere: l’efficacia della censura e il rapporto di Meloni con il merito del discorso di Scurati.
La censura è soltanto la miglior pubblicità al contenuto censurato? E perché Meloni espone un testo nel quale le viene dato, in sostanza, della fascista ai suoi 2,2 milioni di follower su Facebook?
Le fette della torta
Quando l’Università Bicocca ha bloccato i seminari dello scrittore Paolo Nori su Fëdor Dostoevskij all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, ha dato il miglior contributo possibile alla diffusione delle opere dell’autore di Delitto e castigo. Nori ha pubblicato una biografia di Dostoevskij, ha tenuto seminari in tutta Italia, ne ha parlato per mesi – anni – su giornali, televisioni, radio. La censura è tutta pubblicità?
Sì, ma soltanto se ci sono canali alternativi per diffondere il messaggio censurato. Dunque se non è vera censura. Nell’epoca dei social è abbastanza facile ottenere visibilità, mentre la politica continua a ragionare come quando aveva il controllo dell’accesso all’opinione pubblica: ai tempi del potere massimo di Silvio Berlusconi, inizio anni Duemila, negare l’accesso alla RAI ed escludere da Mediaset significava impedire ogni possibilità di raggiungere il pubblico di massa. Oggi, come ovvio, non è più così.
La censura politica, insomma, oggi non è più in grado di prevenire la diffusione delle idee. Ma ha un altro scopo: escludere gli esponenti dello schieramento culturale avverso dalla spartizione delle risorse pubbliche che in Italia vengono distribuite agli amici degli amici in nome della produzione di cultura.
Che si tratti di fondi per produrre film o fiction, sussidi ai teatri, saloni del libro vari, festival di ogni genere: la torta non si espande, ma le dimensioni delle fette cambia a seconda di chi è al potere in quel momento. E questo vale per i 1.800 (o 1.500) euro del monologo di Scurati fino a budget ben più sostanziosi, magari quelli per intere produzioni di talk o programmi di approfondimento.
Quando il PD di Elly Schlein manifesta – in modo quasi ossessivo – di fronte alla RAI, contesta la ripartizione delle fette della torta, non il diritto della politica di decidere chi può mangiarle. Le battaglie per la libertà di espressione sono quasi sempre per difendere la propria libertà di espressione, non quella degli altri.
La questione fascismo anti-fascismo agevola l’approccio, perché neppure i più liberali tra i politicamente corretti si avventurano a sostenere la necessità di garantire anche ai non-antifascisti di esprimersi nella televisione pubblica.
E questo ci porta al contenuto del testo di Scurati: perché Meloni, invece di ignorare la polemica, ha scelto di cavalcarla, diventando la prima divulgatrice della tesi di Scurati, cioè di una sostanziale continuità tra il fascismo violento e omicida e la destra di Fratelli d’Italia oggi al governo?
La destra non antifascista
Come già aveva fatto il 25 aprile del 2023 – ne ho scritto all’epoca su Appunti – Giorgia Meloni ribadisce il suo posizionamento: non post fascista, non neo-fascista (o «neonazista», come ha detto in modo un po’ bizzarro il grecista Luciano Canfora), ma estranea alla ritualità e allo schema anti-fascista.
Per semplificare: Giorgia Meloni non rivendica il diritto di cantare Faccetta nera, ma quello di non cantare Bella Ciao. E questo spiega perché ha pubblicato il testo di Scurati.
Meloni offre queste due ragioni per pubblicare il monologo:
«1) Perché chi è sempre stato ostracizzato e censurato dal servizio pubblico non chiederà mai la censura di nessuno. Neanche di chi pensa che si debba pagare la propria propaganda contro il governo con i soldi dei cittadini. 2) Perché gli italiani possano giudicarne liberamente il contenuto».
Già da queste parole si intende che Meloni non si sente in continuità con il fascismo, ma con quello che è venuto dopo, con la destra MSI-AN-FdI che si è sentita sempre minoritaria e bistrattata dalla Repubblica antifascista che aveva bisogno di loro per costruire la propria identità, ma non ne legittimava la voce o il dibattito interno.
Marco Tarchi è un politologo che ben conosce come pensa la destra italiana, fino al 1981 è stato uno dei protagonisti della discussione nell’area del MSI, dal quale poi si è distaccato per fare soltanto lo studioso. Ha appena pubblicato per Solferino la nuova edizione di Le tre età della fiamma (intervista con Antonio Carioti) che è molto utile per capire la vicenda Scurati.
Sostiene Tarchi che Giorgia Meloni «nel non sottoscrivere una scelta antifascista, al di là del rischio di suscitare disagio in una parte dei suoi elettori, ha di mira ciò che l’aggettivo ha significato dagli anni Settanta in poi, servendo da copertura al radicalismo di sinistra». Perché, osserva sempre Tarchi, l’antifascismo che era un valore trasversale a tutto il cosiddetto «arco costituzionale» non certo soltanto di matrice comunista, con l’allontanarsi dai fatti storici è diventato un tema esclusivo della sinistra più militante:
«La sinistra, anche quella più moderata, ha fatto di tutto, da trent’anni a questa parte, per legare a sé sempre più strettamente, il richiamo all’antifascismo».
Se questo è il modo in cui la destra di Meloni vede la questione antifascismo, allora non ci si può stupire che la premier rifiuti di omaggiare una declinazione politica di ideali in teoria condivisi che però sono bandiera soltanto di una parte. Ancora Tarchi:
«Se Fratelli d’Italia prendesse ulteriormente le distanze dal fascismo, dovrebbe di fatto sottoscrivere – sotto pressione esterna –– la visione caricaturale, astorica, monolitica e universale (“Il Male assoluto”) che di quel fenomeno offrono i suoi avversari, simmetrica a quella altrettanto schematica e posticcia coltivata dagli ambienti dell’ultradestra neofascista».
E quindi?
L’analisi di Tarchi spiega perché Meloni abbia condiviso il post di Scurati: perché lei non si sente certo di dover rispondere della morte di Giacomo Matteotti o delle Fosse Ardeatine, non più di quanto Elly Schlein si ritenga connessa alle foibe o all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956.
Possiamo avere qualunque opinione sulla continuità tra Fratelli d’Italia e il fascismo (il partito è nato per contestare la deriva centrista di Gianfranco Fini e di AN, nel 2012), ma bisogna prendere atto che Giorgia Meloni pensa nel modo indicato da Tarchi. E probabilmente gran parte del suo elettorato che non si sente, e non è secondo qualsiasi definizione, fascista.
Al PD, a Elly Schlein, a tutti gli avversari tranne Scurati – che in quanto scrittore di libri su Mussolini è giusto che di quello parli – non conviene molto continuare a evocare il fascismo, specie quel suo specifico sottoinsieme che è il fascismo della Repubblica di Salò.
Non il fascismo trasversale, con un consenso di massa e dunque imbarazzante, ma quello minoritario, satellite del regime nazista, facilmente presentabile come «altro» rispetto alla storia del Paese.
L’ossessione per la quantità di fascismo intrinseca nell’esperienza di Fratelli d’Italia impedisce di denunciarne gli aspetti più specifici e contemporanei: l’assenza di qualsiasi forma di democrazia interna, la pratica dell’occupazione sistematica di ogni posizione di potere, l’assenza di visione per il paese, un personale inadeguato, le affinità con le democrazie illiberali di oggi, i manganelli sulle teste degli studenti.
Chi vuole concentrarsi sulla matrice storica di Meloni e FdI, otterrebbe risultati ben più efficaci contestando alla premier e ai suoi il pezzo di vicende della destra italiana nelle quali sono direttamente coinvolti. La storia del MSI, gli estremismi e le violenze degli anni Settanta, la compromissione etica, morale, d’affari con il trentennio del berlusconismo, le posizioni anti-europee oscurate dalla patina della convenienza.
Su tutte queste faccende, Giorgia Meloni avrebbe risposte molto meno pronte e molto meno efficaci che sull’omicidio di Matteotti nel 1924.
Il monologo di Antonio Scurati
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista.
Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).
Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana”.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 21 aprile 2024