La sinistra ha stravinto le elezioni amministrative. La destra – bicefala, e quindi molto macchinosa nelle sue decisioni sulle candidature – le ha perse nettamente. Si dovrebbero fare molte altre analisi, specie sui comuni minori, ma il dato politico generale uscito dal recente turno amministrativo resta questo.
Tuttavia, la sinistra deve stare attenta a non crogiolarsi della vittoria, pure eclatante. Questo risultato non può trasferirsi sic et simpliciter al futuro, al voto politico. Intanto, perché in tutto il mondo (persino nel conservatorissimo Texas) i “democratici” vincono spesso nei centri urbani, ma perdono sempre nel voto delle campagne e delle periferie. Poi, perché in Italia le amministrative sono sempre un mondo a parte, specie le comunali.
E, infine, perché il maggioritario a doppio turno, nei comuni italiani sopra i 15.000 abitanti, porta a dinamiche completamente diverse dal voto politico che si annuncia entro marzo 2023, che sarà in parte proporzionale e in parte maggioritario secco. (Si pensi alla vittoria di Gualtieri a Roma, possibile con il 27% dei voti al primo turno, e col 25% degli aventi diritto al secondo: impossibile da replicare col sistema elettorale delle politiche italiane).
La prospettiva del voto 2023, insomma, può essere assai diversa da quella amministrativa odierna, per la sinistra e per una alleanza “giallorossa”. Proviamo a capire le motivazioni più profonde di questa affermazione, guardando oltre le amministrative recenti.
La dicotomia tra leaders e governanti
C’è un motivo strutturale per non considerare il risultato amministrativo trasferibile alle future elezioni. È il tema della leadership politica. Abbiamo capito da tempo che le elezioni politiche sono apertissime al boom del leader popolare di turno. È il caso di Grillo e Salvini nel 2018, persino di Renzi alle europee 2014, e potrebbe essere il caso della Meloni alle prossime elezioni nazionali, se qualche altro errore o scandalo non verrà a fermarla. Se vogliamo banalizzare, è il tema dei leader populisti, sorretti da forte consenso mediatico, dalla popolarità social e TV: strumenti che sullo scenario nazionale contano assai più di quello comunale.
Oggettivamente, la sinistra oggi non ha leader nazionali trascinanti, da spendere nell’agone mediatico del voto nazionale, a meno di non affidarsi alla “supplenza” di Draghi o a quella – assai meno convincente – di Conte. Mentre la destra si dimostra molto più a suo agio, e non sorprende, sulle leadership mediatiche e sloganistiche a largo spettro, tipo Salvini e Meloni.
A loro volta, però, queste leadership elettorali non fanno sentire sicuri quando si parla di affidare loro il reale governo quotidiano del Paese. I leader populisti sono assai poco credibili come uomini delle istituzioni. Sono classe politica, ma non classe dirigente, specie agli occhi di tante forze economiche e sociali, nazionali ed estere, che chiedono serietà e autorevolezza al nostro Paese.
La dicotomia tra il politico “leader popolare” e “saggio governante” sembra insomma farsi sempre più netta. E rendere estremamente complesso il quadro politico post-amministrativo, tra una sinistra che non sa trasferire le sue forti leadership locali in credibili leader nazionali, e la destra che appare dominata da leader carismatici del tutto inadatti ad un serio governo, trovandosi costretta a rincorrere un “federatore” e/o un candidato credibile a Palazzo Chigi. Bisogna mettere insieme chi sa vincere le elezioni e chi sa gestire un paese: perché le due cose raramente, ormai, coincidono. Con un Draghi che potrebbe giocare un ruolo essenziale nel dirimere questa aporia.
Ma è davvero finita l’era dei pifferi magici?
Tutti dicono che il vento è cambiato. Che Salvini e Meloni, così come la narrazione dei Cinquestelle, non sono più così efficaci. Che la gente ora, dopo il Covid, vuole concretezza e serietà. Ma è davvero finita l’era dei pifferai magici? Qualche segno, in effetti, c’è.
Potremmo pensare alle recenti sventure degli spin doctors di Conte e Salvini (i famosi Rocco Casalino e Luca Morisi). Anche il governo Draghi sembra segnare una cesura verso questa cultura politico-mediatica.
Inoltre, è senz’altro vero che – dopo vent’anni – sono ormai svelati, almeno agli occhi più attenti, gli arcana imperii della democrazia digitale del XXI secolo. Ne è chiaro il costo economico elevatissimo. L’esigenza di disporre non solo di sondaggi costanti, ma soprattutto di enormi banche dati – i big data di profilatura degli elettori – che i grandi social forniscono più o meno surrettiziamente, ma certo a caro prezzo.
È chiaro, infine, che in queste dinamiche di elevato costo e di controllo dei data server si inseriscono spesso potenze estere che, come non mai, sono oggi in grado di influenzare il voto delle democrazie occidentali.
Possiamo sperare che nell’elettorato stia nascendo un po’ più di consapevolezza delle dinamiche manipolatorie dell’era digitale. Forse anche un po’ di stanchezza per questa politica urlata di slogan e di meme, e quasi vuota di affidabilità pragmatica e strategica.
Ma non è detto che questa leggera fase di resipiscenza italiana sia sufficiente per fermare la tendenza globale a una politica mediatica. Tanto più che alle elezioni nazionali si presenta a votare una fascia di popolazione meno “politicizzata” e più eterogenea, largamente astenuta alle amministrative, più esposta alle sirene dei migliori comunicatori e della facile gestione dello scontento.
Possibile allora che l’era dei pifferai non sia affatto terminata, come qualcuno pensa alla luce dei risultati amministrativi. La Meloni, alle politiche, potrebbe far fruttare il suo ruolo di unica vera oppositrice del “sistema”, lucrando agevolmente in mondi tra loro diversi ma sempre utili ai fini del consenso: dal 15% di “no vax” e “no pass”, fino alle tante sacche di disagio che la pandemia si lascia alle spalle. E, se anche il suo slancio fosse davvero appannato, potrà sempre emergere, anche in altri schieramenti, un leader che oggi non vediamo: magari un blogger, un influencer, un altro capopopolo…
Forse il solo Draghi potrebbe, oggi, proporre una svolta, l’avvento di una diversa filosofia di leadership “governante” e insieme capace di consenso: ma per fare questo occorre innanzitutto che resti al Governo e non vada al Quirinale. Poi, occorre che nei pochi mesi che restano prima delle elezioni sblocchi davvero il PNRR (finora oggettivamente fermo) e guidi il Paese in una ripresa di cui non beneficino solo i bilanci delle imprese, pure importantissimi, ma anche l’ultimo dei disoccupati. E, infine, occorre soprattutto che una o più aree politiche continuino a vedere il lui la figura che incarna questo nuovo modello di leadership. Ipotizzando che il suo servizio al Paese possa andare oltre il marzo 2023, ormai vicinissimo.
Una sinistra chiamata ora a non commettere errori
Se la “democrazia social” è lungi dal morire. Se, a livello nazionale, oltre alla (eventuale) credibilità di governo, occorre leadership. Se non si possono vincere le elezioni politiche solo col voto dei centri urbani. Se le sacche di marginalità post-pandemica devono profondamente interrogarci. Se il voto comunale è strutturalmente diverso da quello politico… Allora la sinistra deve stare molto attenta a fare affidamento sulla vittoria alle amministrative, per il futuro suo e del Paese. Lo schema (più o meno giallorosso) che ha portato a vincere tante città potrebbe non funzionare quando al voto verrà chiamata l’Italia profonda, non urbana, e la partecipazione alle urne sarà più alta.
Ma esiste una strategia alternativa per la sinistra, per non andare verso un disastro annunciato?
Se qualcuno avesse la libertà culturale e ideologica di riflettere, a sinistra, sugli elementi poc’anzi richiamati, forse si genererebbe un momento di ripensamento sulla strategia con cui, decisamente e quasi aprioristicamente, si sta andando verso le prossime elezioni politiche.
Lo snodo del nuovo Quirinale, infatti, potrebbe scombinare e ricombinare tante alleanze e tante strategie. Potrebbe ricompattare o ulteriormente dividere la destra populista bicefala (Salvini e Meloni). Che disperatamente si affida ancora ad un consunto Berlusconi per restare unita e trovare la strada comune che manifestamente è mancata alle amministrative. Con Forza Italia, da sempre liberale e “governante”, scossa dalla difficoltà di convivere coi populismi di destra. Tensione che vivono anche gli strati “governisti” della Lega, oggi rappresentati da Giorgetti e dai Governatori delle Regioni, spinti a tener testa a Salvini soprattutto dai loro poteri economici e industriali locali, che votano volentieri a centrodestra: ma per una destra di governo, non di piazza, e che certamente preferiscono Draghi a qualunque salvinismo.
Ora il punto è: a destra si può fare tranquillamente il gioco delle parti. Tenere un piede nella staffa della piazza e del meme che porta consenso, e uno in quello del governare serio. Portare a Palazzo Chigi coi voti di Salvini e Meloni il Giorgetti o la figura “governante” di turno (al limite estremo lo stesso Draghi, se fossero abili e se lui si prestasse). Arrivare persino ad entrare tutti nella famiglia dei popolari europei. Se la sinistra consente questa operazione, la sconfitta alle politiche sarà certa e bruciante.
È invece essenziale per la sinistra piantare un cuneo più largo dentro le divisioni di questa destra composita. Tra destra di piazza e destra governista. Tra chi strizza l’occhio alle irrazionalità no vax e chi vuole il green pass come strumento di ripresa economica e riaperture.
Alla sinistra serve libertà culturale e ideologica per fare questo, per fare politica nel campo avverso, per superare una volta per tutte le remore etiche a parlare con Berlusconi, Zaia, Giorgetti e certi ambienti confindustriali del Nord… Servirebbe al centrosinistra una leadership, in vista delle politiche, capace di operazioni trasversali come quella tedesca, dove sta nascendo un governo con rossi, verdi e liberali. O per interrogarsi su quella tentata da Calenda a Roma, che ha raccolto un 20% sui cui riflettere attentamente, parlando sia a sinistra che a mondi professionali e produttivi che vogliono essere governati da gente seria.
Draghi potrebbe essere il catalizzatore naturale di una operazione “trasversale” del genere, a patto che si tenga a bada l’orgoglio identitario di una sinistra pretesa “pura” e soprattutto che si eviti di dare tanta corda a Conte, che di Draghi è – nei fatti – un competitor.
La sinistra perde un’occasione storica se non capisce che è adesso il momento di piantare una zeppa dentro questa contraddizione tra destra social e destra liberale, puntando tutto sulla nascita di una leadership governante in grado di sconfiggere quelle populiste. È un’occasione storica non solo per la sinistra, ma per il bene del Paese. Per non consegnarlo ancora a pifferai magici, vecchi o nuovi, a chi li userebbe, ma ne sarebbe poi condizionato, una volta al governo. Soprattutto, per unire le “forze produttive”, specie quelle del centro-nord, in un patto, un progetto trasversale di ripresa e di resilienza capace di durare oltre il 2023. Unità di cui il nostro Paese, arretrato su tutte le riforme, ha un sanguinante bisogno.
L’elezione del nuovo capo dello Stato, a gennaio, sarà lo snodo cruciale per giocare questa opportunità. Letta ha fatto qualche timida dichiarazione in questo senso. Ma, se si terrà la linea delle correnti orlandiane e zingarettiane del PD che hanno fatto Letta segretario, allora ci si rinchiuderà nella alleanza con Conte e M5S o – è lo stesso – nella formula vuota di contenuto politico e del tutto “mediatica” del “Nuovo Ulivo”.
Serve il coraggio di un rimescolamento assai più ampio di quello possibile coi Cinquestelle contiani e con qualche eventuale residuo di centro e di sinistra estrema. Senza questo coraggio, la prospettiva di una duratura leadership affidata a Draghi, insieme popolare, riformista e governante, si allontana e la scena del ritorno del populismo e di un governo che lo sfrutta e con esso media, resta molto concreta.