L’onda nera

di:

marine le pen

Secondo la Treccani, «la parola sorpresa si riferisce alla meraviglia, allo stupore suscitati da un fatto inaspettato, straordinario o non prevedibile». Per questo, nessuno può dire che il risultato del primo turno delle elezioni parlamentari francesi sia stata una sorpresa: tutti se lo aspettavano, al punto che anche i sondaggi ci hanno azzeccato fin nel dettaglio (e questa sì, è una sorpresa).

I numeri

Perché tutti se lo aspettavano? O meglio: perché l’estrema destra è riuscita a imporsi come il primo partito in Francia (quale che sia il risultato del secondo turno)?

Prima di tutto, un po’ di cifre per avere l’esatta dimensione del successo del Rassemblement national (RN). In termini percentuali, sarebbe da registrare un passo indietro rispetto alle europee di tre settimane fa, quando RN più estrema-estrema-destra di Reconquête avevano ottenuto il 37,2 per cento e il 30 giugno «solo» il 33,1 per cento.

Ma siccome il tasso di partecipazione è stato molto più alto (66,6 per cento degli aventi diritto), questo significa che, in termini assoluti, le due formazioni di estrema destra unite, più i gollisti di estrema destra di Eric Ciotti, hanno incassato qualche consenso in più rispetto a tre settimane prima (non moltissimi: circa 260 mila voti in più, senza peraltro sapere a quanto ammonti l’apporto dei gollisti di estrema destra).

Alle europee, RN+Reconquête erano stati votati da 1,8 francesi su 10, mentre alle legislative sono stati votati da 2,2 francesi su 10: un passo in avanti, certo, ma non la «valanga» di cui molti parlano.

Certo, in un’elezione parlamentare conta chi vota e chi non vota non conta. Ma se si vuole parlare della popolarità reale del partito di Marine Le Pen, bisogna considerare quanti l’hanno votato e quanti (7,8 francesi su dieci) non l’hanno votato. E, ovviamente, bisogna considerare che la popolarità reale di quel pastrocchio improbabile che è l’alleanza di sinistra è ancora minore, per non parlare di quella del partito di Emmanuel Macron o, peggio ancora, di quel che resta dei gollisti che furono.

I fattori del successo atteso

Al successo elettorale dell’estrema destra francese hanno contribuito fattori endogeni e fattori esogeni, cioè fattori tipicamente francesi e fattori che sfuggono alla responsabilità di chiunque governi la Francia, perché si tratta di tendenze globali.

Nonostante le fumisterie dei cosiddetti «sovranisti», nessuno può pensare di restare impermeabile alle tendenze globali: persino il paese più sovranista del mondo, la Corea del Nord, ha bisogno delle stampelle russe e cinesi per tentare di restare in piedi.

Cominciamo dai fattori endogeni, meno importanti di quelli esogeni, ma reali. Il primo che viene in mente è che il presidente Emmanuel Macron e la sua compagine hanno deciso da tempo di usare alcuni dei più pregnanti e distintivi argomenti «culturali» dell’estrema destra nella speranza di attrarne gli elettori.

Una volta constatato che prendersela con gli immigrati e con i musulmani fa guadagnare voti, Macron e i suoi hanno deciso di promuovere nuove misure per imporre ope legis ulteriori restrizioni alla popolazione musulmana, e hanno partorito una legge anti-immigrazione giudicata eccessiva persino da alcuni rappresentanti della destra classica, legge successivamente decurtata di un terzo dal Consiglio costituzionale (che ne ha bocciato 35 articoli su 86).

A partire dal momento in cui i «centristi», «liberali», hanno deciso di saltare in sella ai tradizionali cavalli di battaglia dell’estrema destra, hanno contribuito a sdoganarla molto di più e meglio di quanto abbiano fatto i lifting di Marine Le Pen al partito razzista e antisemita di suo padre.

La ragione è semplice: se anche i «centristi» e i «liberali» dicono ormai le stesse cose per cui il vecchio Front national (FN) è stato per decenni demonizzato, vuol dire che il FN e il RN che gli è succeduto hanno sempre avuto ragione, sono stati, insomma, dei coraggiosi e solitari pionieri ingiustamente perseguitati. E quindi meritano di essere premiati.

La crisi immaginaria

Quasi tutte analisi sul successo dell’estrema destra in Francia insistono su altri tre argomenti, spesso combinati tra loro: uno è la crisi sociale, a volte dipinta come un armageddon sociale, in cui la popolazione affonda sempre di più nell’abisso della povertà e arriva arrancando alla fine del mese a prezzo di sacrifici insostenibili; gli altri due sono l’insicurezza e gli immigrati.

A dispetto di queste rappresentazioni dantesche, la Francia è uno dei paesi in cui si vive meglio e più a lungo al mondo. La speranza di vita è di 83,3 anni (20a su 203 paesi, dati ONU, 2024), il reddito pro-capite è di 47.360 dollari annui (23a su 191 paesi, FMI, 2024), e l’Indice di sviluppo umano, stilato annualmente da un’agenzia delle Nazioni unite, colloca la Francia al 28° posto su 193 paesi.

Queste cifre sono significative, e sono corroborate da una semplice esperienza visiva: per le strade di Parigi la domenica delle elezioni, i bar dove un té non costa meno di cinque euro tracimavano clienti, e le rive della Senna erano quasi intransitabili per l’ammassamento di giovani alle prese coi tradizionali pic-nic estivi, abbondantemente innaffiati, va da sé. Quegli stessi giovani il cui «malessere» li avrebbe spinti, secondo una sociologia spicciola, a votare in massa per l’attor giovane Jordan Bardella.

La Francia è anche uno dei paesi più sicuri al mondo: ha un tasso di omicidi intenzionali di 1,5 ogni 100.000 abitanti (tre volte più dell’Italia, ma quattro volte meno degli Stati Uniti), e, se vi sono più furti che in Italia, ve ne sono molti meno che in Svezia o in Lussemburgo.

La paura degli immigrati è molto più spesso il prodotto dell’immaginazione che della realtà. Un’immaginazione molto ben coltivata da professionisti del mestiere, ma sempre tale.

Lo aveva già provato la Brexit (in cui il tema fu centrale) e lo hanno confermato le elezioni francesi: le aree dove vivono più immigrati (essenzialmente le grandi città e le loro periferie) sono anche quelli in cui la popolarità delle campagne contro di loro è più scarsa, o comunque non si traduce in voto massiccio per l’estrema destra.

In altri termini: gli elettori sono più spaventati dagli immigrati quando non hanno a che fare con loro. Lo storico Lev Poliakov scrive che, nel medio evo, le regioni europee in cui vigevano i più crudi stereotipi antisemiti erano quelle dove non c’erano ebrei. Nil novi sub solem, si potrebbe dire, se non fosse che, oggi, gli stereotipi sono usati senza pudore per far messe di voti, anche se non tutti vi riescono con lo stesso successo.

Un ultimo punto sui malesseri della Francia e i suoi riflessi elettorali: la parte della popolazione che vive peggio è proprio quella costituita dagli immigrati, recenti o di seconda o terza generazione.

Secondo uno studio pubblicato lo scorso anno, nelle banlieue dove la maggioranza della popolazione ha quel profilo, il tasso di disoccupazione è del 18,1 per cento (contro il 7,3 per cento medio in Francia), i giovani disoccupati senza titolo di studio sono il 25,2 per cento (contro il 12,9 per cento), il reddito mediano è di 1.168 euro al mese (contro 1.822) e gli alloggi sovraffollati il 22 per cento (contro l’8,7 per cento). Eppure, la popolazione delle banlieue, quando vota, non vota né per il RN, né per Macron.

Il fenomeno mondiale

Fin qui i fattori endogeni, che però sono subordinati a quelli esogeni, cioè agli effetti del ciclo mondiale sulla Francia. Molti dei problemi sociali reali sono problemi relativi, se si confronta la qualità della vita francese con quella del resto del mondo; ma esistevano anche in passato.

Anzi, alcuni erano anche più gravi di quanto non lo siano oggi: all’inizio di questo secolo, per esempio, il tasso di criminalità era del 65‰, mentre nel 2022 era sotto il 48‰ (dati min. Interni). Ma, allora, il FN (poi diventato RN) era un partito marginale e considerato tossico dall’enorme maggioranza della popolazione. Ricordiamo che, quando il padre di Marine, Jean-Marie Le Pen, passò al secondo turno delle presidenziali del 2002, il suo contendente, Jacques Chirac, balzò dal 19,9 per cento ottenuto al primo turno all’82,2 per cento al secondo, lasciando a Le Pen un misero 17,8 per cento, 0,9 per cento in più rispetto al primo turno.

L’onda di destra è un fenomeno mondiale. O comunque riguarda in particolar modo (ma non solo) molti dei paesi che hanno dominato il mondo nei secoli passati, le cui popolazioni, dopo la crisi del 2008, hanno cominciato a verificare di persona che quell’era di benessere costruito a spese degli altri stava arrivando alla fine.

A quelle ansie, si sono aggiunte le inquietudini suscitate dalla pandemia prima e poi da una situazione politica internazionale che sembra aggravarsi giorno dopo giorno. L’insicurezza esiste, ma non ha niente a che vedere con la criminalità e tanto meno con l’immigrazione e con i musulmani: è l’insicurezza di fronte a un avvenire che si paventa – a ragione – peggiore del presente.

In molti di questi paesi, gli elettori, spaesati e allarmati, tendono sempre più numerosi ad affidarsi alle mani di chi promette loro di riportarli al benessere primevo, alla serenità di un tempo che fu. Senza naturalmente poter mantenere le promesse, perché la fine di quell’età dell’oro non dipende dalla cattiva volontà o dall’incapacità dei governanti, ma da tendenze in corso che i governanti non possono governare. E che gli elettori avvertono, e reagiscono muovendosi come banchi di pesci.

In Francia, l’effetto della crisi del 2008 sulla progressione dell’estrema destra è particolarmente visibile:

grafico

Il solo modo che i governanti delle vecchie potenze industriali hanno trovato per tentare di ovviare alla loro perdita di competitività è stato il ricorso massiccio alla spesa pubblica, e questo già molto prima della crisi del 2008.

Tra il 1980 e il 2024, l’indebitamento pubblico di Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia è passato dal 38,3 per cento dei loro Pil al 135,03 per cento. Siccome la ricchezza reale non si crea facendo girare le rotative della zecca, tutti questi paesi si trovano davanti al dilemma esistenziale di come continuare a drogare il benessere dei loro cittadini senza provocare la bancarotta del sistema.

L’errore di Macron

Paradossalmente, Macron aveva capito dove stava il problema: nell’aver pensato, negli anni d’oro della mondializzazione, che si potesse appaltare a terzi la produzione della propria ricchezza. È vero che quella esternalizzazione ha permesso, a livello mondiale, di ridurre la povertà di quattro volte, di moltiplicare per tre il reddito medio per abitante, di far fare un balzo alla speranza di vita da 62,8 a 73,4 anni. Ma, al tempo stesso, ha de-industrializzato le vecchie potenze industriali e creato nuovi competitori del «vecchio mondo» che aveva disimparato l’arte del competere.

Come ha scritto The Economist, Macron ha lavorato bene, su quel fronte:

«Un tempo a rischio di diventare una città arretrata, con alcuni buoni musei ma una cucina datata e molti graffiti, Parigi è oggi un polo di imprese tecnologiche e un centro bancario che sta iniziando a rivaleggiare con Londra, attirando talenti e capitali oltremanica. Cibo fusion, piste ciclabili, licei internazionali, spazi per startup, moda pop-up: Parigi è di nuovo cool. E non solo Parigi. Il rinnovamento urbano, guidato da un buon mix di investimenti pubblici e imprese private, sta spuntando a Lione, Digione e perfino a Lille, un tempo tristemente famosa».

Ma, aggiunge il settimanale londinese, Macron ha «gettato via tutto» sul piano politico.

Il presidente francese si è trovato di fronte alla difficile equazione di voler rilanciare le sorti della Francia intervenendo sui suoi deficit strutturali e, al tempo stesso, conservare la sua popolarità: quello che perdeva sul fronte sociale (basti pensare al clima quasi insurrezionale scatenato dalla proposta di portare progressivamente l’età legale della pensione da 62 a 64 anni), sperava di poterlo riguadagnare dando in pasto alle ansie degli elettori facili capri espiatori.

Solo che, quei capri espiatori, erano copyright dell’estrema destra da anni. E l’estrema destra è passata all’incasso domenica, senza neppure ringraziare Macron per il servizio reso.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 2 luglio 2024

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