In occasione delle recenti vicende che hanno coinvolto il candidato alla Casa Bianca Donald Trump in un attentato, dal quale è uscito sostanzialmente illeso, mentre altri sono morti, è stato evocato il nome di Dio e la lotta fra il bene e il male. «Solo Dio ha impedito che ciò accadesse» e «Non permetteremo al male di vincere».
Espressioni che sono rimbalzate sui media e che rievocano altre occasioni nelle quali il nome di Dio e la lotta tra il bene e il male sono stati pronunziati al fine di conferire una dimensione metafisica e messianica a quanto accade nella nostra storia. Ciò è avvenuto anche all’inizio, e non solo, del conflitto tra Russia e Ucraina da parte del patriarca Kirill. Tutto ciò senza voler deprecare icone mariane sull’uno e sull’altro fronte chiamate in causa. E non è un caso se settori conservatori cattolici stiano cavalcando queste interpretazioni.
In questi forse lontani contesti dobbiamo interrogarci sulla necessità di una teologia politica del potere, tale da allontanare le tentazioni di una teocrazia fondamentalista, sempre in agguato e spesso mascherata. Questa in ambiente orientale e russo si esprime nel senso di una mal interpretata «sinfonia» nel rapporto fra Chiesa e Stato, fra fede e politica, nel senso della subordinazione della dimensione spirituale ed ecclesiale rispetto a quella civile e politica. Nel contesto statunitense, per quanto mi è dato sapere, si alimenta di posizioni integraliste quali quelle espresse, anche in sede politica, dalle appartenenze evangelicali.
Interrogare la Parola
Qui diventa imprescindibile interrogare la Parola di Dio in ordine al tema del potere e al suo rapporto col divino. E questo perché la riflessione teologica dovrebbe soccorrerci nel tentativo di evitare teocratici fondamentalismi, che conducono sempre alla violenza e negano il dialogo democratico. E una teologia politica cristiana, che tematizzi il senso del potere, non può non prendere le mosse dal Nuovo Testamento.
Il luogo paolino più interessante a questo riguardo e che va adeguatamente interpretato si rinviene nell’incipit del cap. XIII della Lettera ai Romani, che recita: «non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio», in latino «Non est enim potestas nisi a Deo» (Rm 13, 1b). In termini più sintetici la formula è diventata «omnis potestas a Deo».
Il testo greco non lascerebbe dubbi circa la traduzione: οὐ γὰρ ἔστιν ἐξουσία εἰ μὴ ὑπὸ θεοῦ.
E tuttavia sarebbe oltremodo interessante indagare la differenza fra «autorità» e «potere», quest’ultimo termine adottato nella vulgata. Ogni potere viene da Dio, ma ne siamo certi? Anche quello di Hitler o di Stalin? Il contesto dovrebbe aiutare la comprensione di un’espressione così generale. Paolo, infatti, qui è preoccupato di mettere i destinatari della lettera (giudeo-cristiani residenti a Roma) in guardia dalla tentazione di opporsi in maniera violenta alle autorità dell’impero, che invece intende rassicurare, presentando i cristiani come buoni cittadini, fedeli alle leggi.
Ma un ulteriore sviluppo nella dinamica neotestamentaria sul tema del potere lo possiamo indicare nel dialogo fra Gesù e Pilato, nel corso del processo «civile» cui è sottoposto il Nazareno: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto» (Gv 19,11). Qui il termine è lo stesso: ἐξουσία. Il contesto tuttavia è differente. Il fatto che il governatore non è all’origine del proprio potere (e questo riguarda ogni governante) comporta che non lo si possa esercitare in termini assoluti e prevaricatori. L’origine divina del «potere», lungi dal conferirgli una dimensione messianica, viene da Gesù evocata per relativizzarlo.
Tentazione
Allontanare la tentazione messianica da queste vicende umane o troppo umane è estremamente necessario, in modo che tutto sia riportato al terreno e al politico, con la consapevolezza della laicità e dell’autonomia delle realtà terrene che il Vaticano II ci ha consegnato. E qui il fondamento neotestamentario è inequivocabile e va ripreso alla luce di Mc 12, 16-17: «Restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio».
Cesare non è Dio! Non è certo la buona notizia, ma possiamo certamente considerarla una buona notizia, soprattutto se riflettiamo intorno alla sua dirompenza nel contesto del paganesimo imperiale.
Una buona notizia che tuttavia ha il suo risvolto negativo, quando si misura con la martyria, cui è sottoposto il cristiano che nega l’equazione, ponendosi in opposizione con quanti, ebrei o pagani, sostengono di non avere altro re che Cesare, dimenticando che egli, come Pilato, non avrebbe alcun potere se Dio non glie lo concedesse.
Cesaropapismo: tentazione da parte del potere politico di utilizzare strumentalmente quello religioso per darsi un fondamento etico.