Perché io non scriverò “Giorgia”

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«Se volete dirmi che ancora credete in me, scrivete sulla scheda “Giorgia”, perché io sono e sarò sempre una di voi. Il potere non mi cambierà, il Palazzo non mi isolerà».

Lo ha detto la premier e leader di FdI Giorgia Meloni, dal palco della conferenza programmatica del suo partito, a Pescara, annunciando alla platea in delirio dei suoi militanti la decisione «di scendere in campo per guidare le liste di Fratelli d’Italia in tutte le circoscrizioni elettorali» nelle prossime elezioni europee.

Ma già nel simbolo elettorale di Fratelli d’Italia c’è scritto «Giorgia Meloni», così come, del resto, in quello della Lega si legge «Salvini Premier» e in quello di Azione «con Calenda».

Ancora più eloquente il permanere, nel contrassegno di Forza Italia, dell’intestazione «Berlusconi presidente», quasi a inverare la barzelletta secondo cui il cavaliere, in vita, avrebbe rifiutato di investire in un sepolcro, considerandosi destinato alla risurrezione, come Gesù.

A mettere il proprio nome nel simbolo elettorale ci aveva provato anche la segretaria del PD, Elly Schlein, ma la sua proposta ha suscitato nel partito una rivolta che l’ha costretta a fare marcia indietro. L’obiezione, alla fine vincente, è stata che, nel Partito Democratico, una cosa simile non si era mai fatta e che gli elettori sarebbero rimasti sconcertati. Ma lei ha ceduto a malincuore.

Il primato dell’ottica nazionale su quella europea

Questa personalizzazione delle liste è già evidente, del resto, nella scelta di ben quattro leader di partito – Meloni per FdI, Schlein per il PD, Tajani per FI, Calenda per Azione – di presentarsi come capilista in tutte, o almeno in alcune, circoscrizioni. Un fatto unico in Europa e che già di per sé merita una riflessione.

Perché è chiaro che una simile scelta implica una profonda sfiducia nella lucidità dei propri elettori, ai quali viene fatto balenare, come uno specchietto per le allodole, il nome più prestigioso del partito, mettendolo in cima alla lista dei candidati e spingendo così a votarla.

Magari aggiungendo, come nel caso della Meloni, uno spot sintetico ed efficace: «Con Giorgia l’Italia cambia l’Europa». Puntando sul fatto che il votante non si renda conto che la sua preferenza, in realtà, sarà inevitabilmente dirottata su qualcun altro, di cui egli non sa nulla e che non avrebbe mai scelto come suo rappresentante.

Perché, in realtà, si sa già benissimo che né la Meloni, né la Schlein, né Tajani, né Calenda, metteranno mai piede nel Parlamento europeo. Per impegnarsi a pieno tempo in Europa – come promettono negli spot e negli slogan – dovrebbero rinunciare a farlo in Italia e ovviamente, per il loro ruolo, non possono né vogliono farlo.

Il loro intento, nel candidarsi fittiziamente, è solo di attirare voti sul proprio partito e rafforzarlo, nella tornata elettorale dell’8-9 giugno, all’interno dello scenario italiano.

Un’operazione evidentemente scorretta, che non si verifica in nessuno dei grandi Stati europei, e che Romano Prodi ha definito «una presa in giro dei cittadini», sottolineando che «si chiede agli elettori di dare il voto a una persona che di sicuro non ci va a Bruxelles, se vince. Queste sono ferite alla democrazia».

La logica che serve all’Europa

Al di là della «presa in giro», il significato di questo fenomeno, tutto italiano, è alla fine uno solo: la totale strumentalizzazione del problema dell’Europa a quello angustamente nazionale. Quello che conta è vincere in Italia.

Da qui anche la tendenza, nel dibattito elettorale, a lasciare in secondo piano i problemi specifici dell’Unione Europea – quelli che il nuovo Parlamento dovrà realmente affrontare –, particolarmente urgenti e drammatici in questa congiuntura storica, per puntare su polemiche nostrane che appassionano l’opinione pubblica ed evidenziano il precipitare del livello di consapevolezza politica nel nostro Paese.

«Questa Italia che cambia oggi può cambiare l’Europa», ha detto Giorgia Meloni annunziando la propria candidatura. Proprio la sua scelta – come quella degli altri leader che l’hanno condivisa – induce spontaneamente a pensare: «Speriamo di no!».

Il futuro dell’Europa dipende, infatti, dalla possibilità che finalmente i paesi membri escano dalla logica autoreferenziale che ancora appare predominante e di cui proprio quello che sta accadendo in Italia è l’espressione più lampante.

L’avvento del populismo

Si inserisce in questa corsa alla personalizzazione l’inserimento dei nomi dei leader nei simboli elettorali, di cui si parlava all’inizio. Nella Prima Repubblica, fino al 1992, nessun partito ha mai messo il nome del suo leader nel simbolo.

La politica era basata sul confronto tra visioni diverse – si pensi al conflitto tra quella democristiana e quella comunista –, e chi andava a votare sapeva di stare facendo una scelta di prospettive ideali e di valori.

Con la fine di questa fase storica, dovuta anche al tramonto delle grandi ideologie, e con l’avvento della Seconda Repubblica, al posto delle idee hanno acquistato sempre più un ruolo centrale i personaggi.

Così, per la prima volta, nelle elezioni politiche del 1992, si è assistito alla presentazione di una «lista Pannella». Ma la svolta decisiva è stata in quelle del 2001, quando Berlusconi ha inserito il proprio nome nel simbolo di un partito – Forza Italia – nato da lui e in funzione di lui.

Scelta emblematica, che ha espresso bene l’avvento di una nuova stagione, in cui è stata la sua persona, più che le sue idee, a condizionare la politica italiana. E le tornate elettorali si sono ridotte a un plebiscito sul suo «personaggio», con la stessa intensità idolatrato dai suoi fans e detestato dai suoi avversari.

Significativo il fatto che il suo non fosse un programma politico, valido o meno in sé, ma un personale «contratto con gli italiani», un appello ad avere fiducia in lui.

Questo dialogo diretto tra il leader e il «popolo» è tra le novità che hanno segnato l’avvento del populismo in Italia. Mentre venivano sempre più svalutate le mediazioni istituzionali (il parlamento) e culturali (gli intellettuali) – la «casta» –, la figura di Berlusconi è diventata, nell’immaginario collettivo, l’icona delle aspirazioni dell’italiano medio (le donne, i soldi, il successo).

Niente programmi, contano i nomi

Nell’italiano medio il cavaliere ha voluto identificarsi mediaticamente, riproducendo la sua carica di umanità e strizzando l’occhio ai suoi vizi (come quando ha pubblicamente giustificato l’evasione fiscale). «Uno di noi», vicino alla gente, capace di ascoltare tutti e di comunicare con tutti, mai prigioniero di un ruolo ingessato, anche a costo qualche volta di scandalizzare i suoi interlocutori stranieri con battute e comportamenti ben poco istituzionali.

Da qui anche uno stile politico personalistico, insofferente delle regole, considerate inutili fardelli formali, e delle opposizioni, accusate di «remare contro», soprattutto in costante polemica con la magistratura, vista come un impaccio o una minaccia, invece che come espressione della divisione dei poteri prevista dalla nostra Costituzione.

L’esempio di Berlusconi non è rimasto isolato. Esso ha contagiato e contaminato il clima politico e continua a condizionarlo fino ad oggi. Tutti i partiti ne sono stati profondamente influenzati, perdendo progressivamente la loro identità. E ne è stata influenzata la gente. Ne vediamo gli effetti. Mai come oggi la politica si è ridotta a una corsa al consenso e al gradimento espresso nei sondaggi.

Un solo esempio: pochi giorni fa, nel Parlamento europeo, i rappresentanti dei partiti italiani, sia di governo che di opposizione, sono stati gli unici – su 27 paesi – a rifiutarsi, per timore dell’impopolarità, di approvare la proposta del nuovo Patto di stabilità, che potrebbe comportare dei sacrifici e che, alla fine, anche il governo italiano non ha potuto che sottoscrivere.

Ma è tutto lo stile del dibattito politico che è molto cambiato, rispetto a quello della Prima Repubblica. Invece di proporre idee, si gridano slogan. Invece di veri programmi, contano i nomi e le facce. Non a caso le prossime elezioni europee vengono presentate spesso come un duello tra due donne, Meloni e Schlein (alla faccia del patriarcato…), che chiedono entrambe fiducia nella loro persona.

«Scrivete Giorgia»

In questo quadro rientra e spicca per coerenza l’atteggiamento della nostra presidente del Consiglio. Non per nulla, quando è morto il fondatore e padre della Seconda Repubblica, ha voluto il lutto nazionale. Anche per lei, come per Berlusconi, i magistrati sono un ostacolo e, in particolare, quelli di loro che, basandosi sulla legge, «contrastano le misure del governo» relative ai migranti, «remano contro».

Anche lei, come Berlusconi, non vuole restare prigioniera dell’istituzione: «Io sono fiera di essere una persona del popolo». E anche lei col popolo vuole avere un contatto diretto, senza passare dalle mediazioni (già oggi il Parlamento è praticamente azzerato) che attualmente sono previste dalla Costituzione.

Tutto previsto: nel programma elettorale della destra si prevedeva la riforma del premierato, al fine di «assicurare la stabilità governativa e un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il governo». Non a caso questa viene definita «la madre di tutte le riforme».

E, se verrà fatta, lo sarà davvero, perché comporterà un radicale stravolgimento della nostra Carta costituzionale, rendendo istituzionale quel dialogo personale tra il «capo» e il «popolo» che Berlusconi già aveva realizzato mediaticamente e che trasforma il discorso politico in un atto di fede personale. L’approccio ideale, in passato, per tutti i totalitarismi, e che oggi si potrà ancora più facilmente realizzare nelle forme nuove consentite dalla realtà virtuale, grazie a cui il leader carismatico diventa un ologramma in cui tutti si riconoscono.

Rileggiamo le parole del discorso di Pescara: «Se volete dirmi che ancora credete in me scrivete sulla scheda “Giorgia”, perché io sono e sarò sempre una di voi». Ci sono persone che hanno pianto di commozione, ascoltandole.

A me sono venute in mente le amare riflessioni che ho espresso in queste righe. E molti elettori, l’8 e il 9 giugno, scriveranno «Giorgia» sulla scheda elettorale. So di essere in minoranza, ma io non lo farò.

  • Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (tuttavia.eu), 2 maggio 2024
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2 Commenti

  1. Giuliana Babini 14 maggio 2024
  2. Paolo Maria 9 maggio 2024

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