Le emergenze attuali in ambito sanitario in Italia hanno radici lontane nelle scelte riguardanti la prevenzione, la cura e la riabilitazione.
Lo scorrere del tempo mi avvicina al traguardo dei cent’anni – sono all’ultima decade – e mi spinge sempre più frequentemente a… ripassare gli argomenti sui quali è venuta ad accumularsi quella gigantesca cultura d’incontro che indica la polivalenza generica di chi si è accostato a tanti problemi senza risolverne uno, che è tipica di molti politici del secolo scorso.
A sollecitare tale reazione sono gli avvenimenti dell’attualità; e quindi, oggi, le vicende legate alle gesta del coronavirus e alle modalità con cui, nei diversi paesi, si è tentato e si tenta di contenerne i danni. Nel caso mio, naturalmente l’Italia, a partire dal silenzio delle strade che, dalle grandi città ai piccoli borghi, segna la vita di questi giorni, come da disposizioni superiori dettate dall’esigenza di salvare la vita dei cittadini.
Mi viene così spontaneo di introdurre un mio punto di vista sulla questione, assai dibattuta, dell’impianto e del funzionamento del nostro servizio sanitario nazionale, giustamente lodato se comparato con altri, come parte di un sistema di protezione “dalla culla ai cipressi” per ogni cittadino.
In Italia lo aveva importato mons. Pietro Pavan, che allora (1945 e seguenti) insegnava “sociologia” (che, in realtà, era la dottrina sociale cristiana) all’Università Internazionale “Pro Deo”; ed era naturale che il suo pensiero tracimasse verso le soluzioni socialmente più avanzate. Io frequentavo i suoi corsi per l’area del giornalismo e i concetti di allora mi rimasero impressi e li ebbi a guida per i decenni successivi trasferendoli prima nelle Acli e poi nell’Ente mutualistico in cui lavorai dal 1960 al 1968.
Esperienze e speranze
Nell’ente mutualistico, che era la Federmutue Commercianti, di nuova formazione, diressi una rivista il cui titolo era Mutualità Democratica e il cui programma era quello di valorizzare il metodo democratico nella gestione delle mutue provinciali previste dalla legge cercando di superare i difetti di clientelismo politico e altro, presenti in precedenti esperienze.
Nelle Acli mi occupai del Patronato per i servizi sociali dei lavoratori, formula che, fin dal 1945, manifestava un disegno di completezza della copertura assicurata ai lavoratori.
Nel 1968 promossi un convegno dal titolo “Sicurezza sociale per una nuova condizione umana” nel quale la sicurezza sociale era presentata come traguardo di un riformismo volto alla promozione di una condizione umana che affermasse i principi di giustizia e di equità non solo tra i lavoratori ma fra tutti i cittadini.
Nell’impianto del convegno erano presenti i concetti del Piano o più precisamente del Programma economico nazionale 1965-1970, approvato dal Parlamento nel 1967 dopo una minuziosa discussione.
Il Piano enunciava la tendenza verso un “compiuto sistema di sicurezza sociale” che, per il campo sanitario, intendeva operare in tre direttrici: la prevenzione, la cura e la riabilitazione, in ogni ambito, puntando sull’unità dell’intervento sia concettuale che strumentale.
Qui si accese una polemica: che cosa si intendeva per unità? Soltanto l’accorpamento delle strutture esistenti (i vari enti in cui si suddivideva la copertura per categorie del fabbisogno sanitario) oppure la creazione di istituti nuovi per il governo delle tre direttrici di intervento e cioè la prevenzione, la cura la riabilitazione?
Prime delusioni
Lungo questa via di ricerca ebbi modo di imbattermi in Giovanni Berlinguer, uno studioso della storia della medicina che sapeva tutto delle pestilenze e delle epidemie e argomentava sempre in favore della prevenzione. Con lui e con Bruni della Dc e Signorile del Psi demmo vita ad una sorta di cattedra ambulante informale che propugnava il verbo del nuovo servizio sanitario, forse immaginandolo perfetto quando perfetto non poteva essere. E, in effetti, quando si passò dall’enunciato all’effettivo ci si accorse che soltanto per la dimensione della cura si era dato vita ad una struttura unificata nella Unità Sanitaria Locale, mentre le dimensioni della prevenzione e della riabilitazione restavano frammentate e disorganizzate.
In particolare, a me accadde di ritenere acquisiti gli obiettivi principali quando il ministro Donat Cattin mi chiamò a far parte di un gruppo di lavoro per redigere la posizione del suo ministero (il Lavoro) sulle prospettive di riforma. Anche qui mi parve che le parole scritte su carta fossero adeguate alle aspettative, salvo poi accorgermi che gli scostamenti erano molti e che la pressione degli interessi in giuoco si faceva sentire in modo da condizionare le scelte.
Cominciai ad accorgermene quando al ministero della Sanità del governo Andreotti, quello della solidarietà nazionale, fu nominata Tina Anselmi invece di Maria Eletta Martini, la deputata che aveva condotto la battaglia parlamentare per la Dc e in dialogo con il Pc.
Il timore era che la Anselmi, ineccepibile su ogni piano, fosse meno adatta a resistere alle pressioni del mondo sanitario che si fecero sentire almeno su due fronti: la riduzione dei poteri delle Unità Sanitarie Locali che persero in breve tempo il dominio sull’intero sistema a livello locale, operazione che si realizzò con un cambio di nome (da unità ad azienda), e con il sostanziale scorporo degli ospedali, anch’essi denominati “aziende”, dalla dipendenza dalle USL.
L’avvento delle aziende
L’altro fronte fu il depotenziamento delle stesse USL nell’incertezza parlamentare tra due soluzioni alternative: conferire il governo delle USL agli enti locali oppure farne un’emanazione dei partiti attraverso la nomina dei componenti dei loro organi dirigenti. Di fatto, si arrivò a un declassamento delle USL sempre più gravate da compiti di gestione e di controllo e sempre meno capaci di coprire l’intero spettro dei compiti propri di una sanità che si occupasse, in primo luogo, della prevenzione come scritto nelle carte costitutive.
Il ricordo mi ha assalito come un rimorso nelle ultime settimane di fronte al conclamato scollamento tra un settore ospedaliero, progettato come indipendente, e le esigenze di un territorio incapace di resistere (non dico di prevedere) l’onda d’urto di un’epidemia devastante e costretto ad una ricerca affannosa di ripieghi e di rifornimenti di strumenti, di materiali e di uomini da formare partendo da quota zero.
Di sanità non mi occupo più da almeno due decenni; è questa l’unità di misura del tempo per quelli della mia età. Ma il rimpianto tra quel che avevamo sognato e quel che si è realizzato rimane forte. Non fino al punto da contestare quel che s’è fatto per arginare l’epidemia con i mezzi comunque scarsi a disposizione o per mettere in dubbio la generosa dedizione di tutti gli impegnati in prima linea o nelle retrovie. Nelle condizioni date non si poteva fare di meglio.
Rischio di fabbrica e compravendita della salute
Intanto mi sorprendo a meditare sulla contraddizione che oggi appare evidente tra l’elaborazione teorica degli anni ’70, che aveva messo in luce la connessione tra ambiente e industria, e la contemporanea esultanza di tutta la politica, sindacato compreso, per l’installazione di impianti nocivi come l’Ilva di Taranto. E, su una scala più ampia, lo scarto tra la presa di coscienza del movimento dei lavoratori sul nesso tra la salute a rischio e l’usura del lavoro per l’esposizione agli agenti nocivi. La salute non si vende era la parola d’ordine, ma poi come resistere ad un aumento salariale in cambio di un rischio in più?
Le “condizioni date” di cui parlavo sopra sono esattamente queste; ed è su di esse che va esercitata la critica, cioè sul non fatto rispetto a quanto si era ritenuto possibile o era stato persino incluso nei testi legislativi. Ed è per questo che un “ripasso” come quello suggerito in queste note è non solo utile ma, a questo punto, necessario. Se non per l’oggi almeno per il domani.