Qualche anno fa, quando ho iniziato a frequentare i talk show di attualità, mi ero dato una regola: mai andare in una trasmissione nella quale è presente Vittorio Sgarbi. Niente di personale, ma, poiché i giornalisti vivono della propria reputazione, ero ben consapevole che non c’era modo di interagire con Sgarbi e uscirne con la reputazione intonsa. Ne ho avuto conferma quando, un paio di volte, con Sgarbi mi sono trovato in studio (o in collegamento): non sempre è nota la lista degli altri ospiti in anticipo, non sempre è possibile sfilarsi quando viene comunicata.
Il solito Sgarbi
Sgarbi ha costruito un format personale che ripete da trent’anni, dice cose di buon senso e perfino interessanti per gran parte della trasmissione – tanto sa che nessuno se le ricorderà – e poi, a freddo, senza un particolare spunto, interpreta il suo personaggio. Sbrocca, urla, insulta, spera che gli altri ospiti reagiscano in modo da continuare la polemica su quei toni.
I conduttori sono sempre incerti se sedare la rissa (pensando alla reputazione del programma) o assistere compiaciuti (pensando agli ascolti, alle polemiche social e così via).
Mi è poi capitato di interagire con Sgarbi anche senza telecamere davanti e ho capito che ormai da tempo, forse da sempre, interpreta il personaggio televisivo anche in assenza di pubblico, come se fosse impegnato in uno show permanente che ha come referenti il mondo della comunicazione, della politica e della cultura che da decenni lo osserva ipnotizzato. E che, invece che pretendere rispetto, cortesia o anche soltanto civiltà, continua a omaggiarlo di cariche, emolumenti, spazi promozionali per mostre, libri o qualunque altro progetto lui concepisca all’incrocio tra le sue varie vite professionali.
Sgarbi ha dimostrato, nel suo percorso, che le regole non valgono. O almeno che tra le regole dell’establishment italiano è contemplato un posto per il provocatore che le infrange tutte, senza però mai turbare veramente l’ordine costituito.
Questa premessa per dire che chiunque offre un palco a Sgarbi o interagisce con lui sa perfettamente a cosa va incontro, anche perché Sgarbi − giustamente − pensa che, se continuano a invitarlo, è perché i committenti si aspettano che lui produca il suo solito numero da indemoniato. Quindi, quando è salito sul palco del Maxxi, il museo di Roma fino a poco fa ritrovo di una certa sinistra del potere culturale, Sgarbi era pronto a fare Sgarbi.
E doveva saperlo anche Alessandro Giuli, il presidente del Maxxi che è anche un giornalista che conosco bene da tanti anni, vicedirettore nel Foglio dei miei inizi professionali.
Tutto prevedibile
La nomina di Giuli al Maxxi è stata finora il segnale più chiaro del grande progetto della destra meloniana di costruire una nuova egemonia culturale − prima nelle poltrone e poi nelle idee − da sostituire a quella di un centrosinistra che ha presidiato ogni trasmissione, festival, rassegna e istituzione negli ultimi decenni, a prescindere spesso dai meriti e dalle idee.
Dunque, fuori Giovanna Melandri dal Maxxi, dentro Giuli che ha la fortuna ma anche la responsabilità di essere uno dei pochi intellettuali di una destra storicamente anti-intellettuale (o quantomeno prigioniera di una contro-cultura di nicchia, spesso tristanzuola e post-adolescenziale, che va da Julius Evola a J.R.R. Tolkien).
Proprio perché conosco Giuli e mi è chiaro il suo ruolo nello schema della conquista meloniana dell’Italia, non mi capacito della scelta di aprire una rassegna estiva al Maxxi con Vittorio Sgarbi e Morgan. Che altro poteva succedere se non trasformare una serata di presunta cultura in una cloaca di volgarità irripetibili?
Morgan e Sgarbi hanno fatto quello che li ha resi famosi, cioè berciare scurrilità inaccettabili a una cena tra amici, figurarsi a un evento pubblico. La presenza di Giuli sul palco ha contribuito a legittimare il tono della discussione, invece che arginarlo, indirizzarlo, stigmatizzarlo.
La parte ovvia delle reazioni al video, disponibile su Youtube, è che in nessun paese civile Sgarbi e Morgan dovrebbero più avere accesso a palchi pubblici, fisici o televisivi. Invece Sgarbi continuerà a essere − incredibilmente − sottosegretario alla Cultura e sindaco di non so quali comuni, mentre Morgan verrà conteso da talent show musicali, radio e produttori vari.
Se Giorgia Meloni avesse davvero qualche interesse alla dignità delle donne, se attribuisse un qualche significato generale e non soltanto personale al suo arrivo a palazzo Chigi, dovrebbe pretendere le dimissioni di Sgarbi immediate.
Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, altro pilastro del progetto culturale meloniano, ha avuto il buonsenso e la dignità di parlare di «sessismo» e «turpiloquio inammissibile». Ma certo non può ritirare le deleghe a Sgarbi e cacciarlo a pedate come meriterebbe senza l’assenso di Giorgia Meloni, che quindi si assume la piena responsabilità di tenere al governo un personaggio che negli Stati Uniti o in altri paesi civili sarebbe già stato scaricato da editori, librai, comuni, fondazioni e chiunque altro sia in condizione di lucrare dalle sue opere.
Di motivazioni per cacciare Sgarbi, nella prospettiva di Meloni, ne avrebbe più d’una, anche senza cedere al cosiddetto «politicamente corretto» che è poi quel grado minimo di civiltà che la destra contesta. Il problema Sgarbi per Meloni sta nel fatto che la sua permanenza nell’esecutivo dopo lo show al Maxxi toglie ogni credibilità al progetto egemonico di questa destra.
È questa la cultura che i nuovi conservatori vogliono sostituire a quella di sinistra? Sembra di sì. Ma è inevitabile che al confronto di questo squallore perfino i consunti duetti tra Fabio Fazio e Luciana Littizzetto sembrino all’improvviso l’apice della cultura occidentale.
Dove sono gli intellettuali?
Il ministro Sangiuliano ha provato a impostare − non si sa quanto in sintonia con Palazzo Chigi − un’idea di cultura di destra liberale, perfino antifascista, che guarda con nostalgia a Ronald Reagan e a Benedetto Croce più che a Benito Mussolini e a Giovanni Gentile. Ma questo sforzo − eroico direbbero a destra, velleitario gli altri − sta già naufragando sotto il peso dell’inadeguatezza delle persone chiamate a interpretarlo.
Un altro dei presunti intellettuali di questa destra, il giovane Francesco Giubilei si è già dimesso da consulente di Sangiuliano: la sua fondazione Tatarella aveva preso un contributo da 46 mila euro dal ministero di Sangiuliano. Giubilei si è dimesso soltanto dopo che ne ha scritto Il Foglio.
Per il salone del Libro di Torino non si riusciva a trovare uno scrittore o un intellettuale di destra, cosa che pareva il requisito imprescindibile, dunque al posto di Nicola Lagioia è stata scelta Annalena Benini, giornalista del Foglio e scrittrice.
La lista degli altri scrittori o pensatori di area che dovrebbero rompere l’egemonia della sinistra è così corta da non dare speranze al progetto: giusto una manciata di nomi che seguono i soliti, cioè Pietrangelo Buttafuoco, Giordano Bruno Guerri, Marcello Veneziani e altri ormai consunti dall’interpretare costantemente il ruolo di minoranza poco considerata (ma in realtà sempre piena di opportunità proprio in una prospettiva di pluralismo ideologico che, in fondo, la sinistra ha praticato sempre più della destra).
I dipendenti del Maxxi hanno scritto al presidente Giuli imbarazzati, chiedendogli − con fiducia, più che con polemica − di tutelare la reputazione e il livello dell’istituzione. Ma a imbarazzarsi davvero dovrebbe essere la destra − i suoi dirigenti e i suoi elettori − che vedono incarnata in Sgarbi la pretesa novità culturale. Cioè l’eterna riproposizione di un personaggio televisivo prodotto dagli abissi del berlusconismo che, incredibilmente, l’Italia ha preso sul serio.
Sul palco del Maxxi è evaporata ogni ambizione culturale di questa nuova destra. Dietro gli slogan e il vittimismo c’erano soltanto barzellette sconce da scuole medie e un immaginario da terza serata Mediaset. A modo suo, insomma, la serata organizzata da Alessandro Giuli ha dato un utile contributo a definire il perimetro culturale della destra di Giorgia Meloni.
Pubblicato sulla newsletter Appunti il 3 luglio 2023