La generazione uscita dalla seconda guerra mondiale è ripartita sulla base di grandi ideali. Sarà altrettanto per la generazione del dopo-virus?
Dunque siamo in guerra, in ordine sparso e contro un nemico invisibile che attacca dove vuole e quando vuole, un po’ come il terrorismo del secolo scorso. Ed è dotato di armi potentissime, paragonabili alle armi batteriologiche e in più produce effetti collaterali di portata letale come le epidemie diffuse su tutti i continenti. A poche settimane dalla discesa in campo del coronavirus si ricompone cosi la triade dell’invocazione popolare: a peste, fame et bello, libera nos Domine. Una mesta litania che percorre tutta la storia dell’Occidente.
E tanti commenti indugiano sul punto: siccome siamo in guerra e la guerra viaggia in compagnia della fame e della peste (cambiano i nomi ma la sostanza è identica) bisogna attrezzarsi per combattere almeno su due dei tre fronti, la peste e la fame, visto che fortunatamente non si è (ancora?) attivato un fronte militare propriamente inteso, con i conseguenti esiti cruenti.
È un esercizio che si compie utilizzando i materiali che la storia propone, naturalmente con gli aggiornamenti che il progresso ha introdotto e che inducono per lo più ad una visione ottimistica delle cose. Così, oltre la narrazione manzoniana della peste del XVII secolo e l’evocazione della “spagnola” del primo dopoguerra del secolo scorso, si passa ad analizzare le analogie e le differenze con quegli eventi.
“Come li cani”
Per concludere che, per quanto i pericoli attuali restino gravi ed incombenti, le risorse della scienza e della ricerca sono in grado di debellarli e di consentire all’umanità ferita di tornare in piena salute. E ciò mentre negli ospedali, trasformati in lazzaretti elettronici, ci si accapiglia per trovare le mascherine da fornire ai medici e agli infermieri che affrontano l’epidemia a… viso scoperto e così restano esposti ad una minaccia mortale.
Nei giorni scorsi, anche per rompere la monotonia della quarantena casalinga alla quale oggi siamo condannati in Italia, ho trovato nel librone dei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli una sequenza di trentadue sonetti dedicati al Er Collera mòribbus uno dei quali mi ha fatta pensare alla fila di camion militari che portavano via i morti dagli ospedali di Bergamo. Lamenta il poeta di “vedè buttà li poveri cristiani/ li nostri padri, le nostre creature/ ner campaccio, per dio, come li cani”. E allora, nel 1835, l’inumazione nei cimiteri era ancora guardata come un’empia profanazione. Ma il disgusto per il trattamento riservato alle salme non cambia.
La zappa non basta più
Se dunque la scena tragica delle conseguenze dell’epidemia di oggi somiglia a quella di ieri, diventa relativo il giudizio sulla grandiosità dei progressi compiuti nel campo scientifico e sanitario per contrastarne l’avanzata. Segno che, con tutti i limiti introdotti sul campo di battaglia, non muta la sostanza dei fatti e quindi il giudizio che ne deriva.
Né questo si attenua quando ci si inoltra nel capitolo della fame. Qui colpiscono soprattutto le rassicurazioni che le autorità, in sintonia con le agenzie della grande distribuzione commerciale, forniscono all’opinione pubblica circa l’abbondanza delle forniture dei negozi e degli spacci, tali – si direbbe – da garantire un’epoca di benessere a tempo indeterminato per tutta la popolazione. Il che diventa problematico se si considera il fattore tempo. Vuol dire che oggi siamo ancora agli inizi dell’epidemia e che i suoi sviluppi e le stesse misure per realizzare il distanziamento sociale, come l’obbligo di stare a casa, sottraggono al processo produttivo la manodopera indispensabile per garantire la quantità e la qualità dei beni necessari a soddisfare il fabbisogno nazionale e sovranazionale delle merci di cui le popolazioni hanno bisogno.
Si deve anche considerare che oggi le preferenze dei cittadini vanno a prodotti sempre più raffinati che esigono l’intervento del sistema industriale anche là dove prima bastava la zappa del contadino.
Non c’è dunque nulla che assicuri in modo assoluto che le provviste saranno garantite e che il pericolo della carestia sia scongiurato.
Organizzare la speranza
Tutto questo può accadere se si verificano i due fattori fin qui considerati: in sinergia, la peste moderna e la fame. Ma il processo subisce una sicura moltiplicazione se, nel quadro, si inserisce un effetto guerra, in modo diretto o semplicemente indotto dal cumulo delle altre due sciagure. Una guerra degli anni duemila presenterebbe in modo massiccio i fattori connessi all’uso dell’armamento nucleare i cui effetti restano imponderabili sia sull’umanità sia sull’ambiente, deteriorandoli entrambi in modo massiccio ed irreversibile.
Pensare che tutto ciò possa lasciare inalterati tutti i fattori della convivenza umana sarebbe inammissibile. Perciò a quanti hanno vissuto gli anni della seconda guerra mondiale va consigliato di cancellare dalla memoria quel periodo della loro vita che conobbe, sì, la tragedia dei bombardamenti sulle grandi città, accompagnati dai razionamenti alimentari e dal coprifuoco.
Altrettanto va consigliato agli altri che vissero quel periodo nelle campagne e che per lo più ebbero a condividere le risorse di una vera economia sociale spontanea, dove ogni famiglia produceva per tutte le altre famiglie del vicinato e tutte le famiglie operavano in regime di reciprocità; e dove ai più giovani di allora (quorum ego) era dato di scoprire la fatica del lavoro dei campi e, insieme, di studiare le meraviglie della natura, a partire dalla riproduzione degli animali, per terminare con gli innesti delle piante, cose di cui, a ripensarle oggi, si può avere soltanto nostalgia.
Che cresce se si pensa al fatto che le generazioni di allora, avessero o meno fatto la guerra, ebbero a loro sostegno, per il dopo, un bagaglio di pensieri alti, si chiamassero Carta Atlantica o Piano Marshall o Unità Europea, che nell’Occidente capitalistico si presentarono non solo come alternativa alle dittature ma anche come correttivi al capitalismo.
Domandarsi che fine abbiano fatto può essere un’esercitazione di importanza decisiva se si vuole “organizzare la speranza” per il domani, così come i giovani degli anni Quaranta del secolo scorso si riunivano per affrontavano lo stesso tema sulle coordinate di allora.