Politica come arte della pace

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“La politica è l’arte della pace”. Il titolo del messaggio di papa Francesco per la Giornata della pace 2019 – “La buona politica al servizio della pace” – richiama alla mia memoria di antico pacifista un’espressione assai frequentata degli anni ’80 del secolo scorso, modulata sul metro del seguente sillogismo: la pace è possibile, la politica è l’arte del possibile, dunque la politica è l’arte della pace.

Con qualche forzatura sulle simmetrie logiche delle premesse, maggiore e minore, l’argomentazione si rivelava efficace nel dibattito in corso in quegli anni sul tema cruciale della installazione in Europa dei missili sovietici e americani a corto raggio. Un tema che, proprio in queste ultime settimane, è stato sconsideratamente rilanciato dal presidente americano Trump, accolto con viva apprensione da quello russo Putin e commentato con sagge considerazioni da uno dei protagonisti della vicenda degli euromissili, l’allora leader sovietico Gorbaciov.

Beatitudini e vizi

I contenuti fondamentali del messaggio papale sono stati per lo più analizzati sotto il profilo dell’elaborazione della buona politica e, in essa, della testimonianza degli operatori fino all’enucleazione del catalogo delle “beatitudini del politico” – eredità del cardinale vietnamita Van Thuan – con la corrispettiva elencazione dei vizi della politica «dovuti sia ad inettitudine personale sia a storture nell’ambiente e nelle istituzioni».

Inevitabile che, in Italia, se ne sia colto il legame con la (ricorrente) fase di ricerca di un modo appropriato dell’essere e del manifestarsi di un’energia cattolica in un contesto democratico sottoposto a inedite tensioni critiche.

Ma – senza nulla togliere all’importanza di tale dibattito che ha bisogno di svilupparsi su linee proprie – sembra utile riportare l’attenzione sulla condizione della pace e sul da farsi perché l’opera della sua costruzione possa riprendersi con il vigore necessario.

La “buona” guerra fredda…

Dalla fine delle seconda guerra mondiale – pur in presenza di un conflitto ideologico e politico radicale come quello tra Est e Ovest con il corredo di una miriade di conflitti minori, visibili o dimenticati – si deve constatare che non è mai venuta meno una tensione universale verso il superamento delle situazioni di crisi e verso la conciliazione per quanto precaria dei conflitti.

Gli studiosi più realisti giungono a sostenere che a salvare il mondo dallo sterminio nucleare sia stato l’equilibrio del terrore stabilito nella cornice della “guerra fredda”, che era poi contrasto irriducibile tra opposte visioni del mondo. L’opinione è probabilmente esagerata, ma è doveroso riconoscere che, sia negli organismi sovranazionali, come l’ONU, sia nell’esercizio delle diplomazie bilaterali e multilaterali, siano stati molti i casi in cui una valutazione ponderata delle materie del contendere abbia consentito di evitare lo scontro militare.

I tre panieri di Helsinki

Nella visione minimale dell’epoca non pochi ritenevano che fosse meglio un muro di Berlino che una guerra di Corea o una guerriglia in Vietnam; ma, poiché non è stata ancora scritta una storia delle guerre evitate, conviene attenersi alle esperienze accumulate per registrare la doppia serie dello svolgimento dei fatti. E, in esso, rintracciare i momenti in cui la politica ha mostrato di “essere buona”, cioè di favorire, se non la “pace perpetua” di ascendenza kantiana, almeno una serie di tregue significative a riprova, se non altro, della possibilità di passi ulteriori sulla giusta via.

La mia memoria istintiva mi riconduce a due episodi di grande significato. Il primo è la redazione dell’Atto Finale di Helsinki (1975) sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. In esso tutte le nazioni dell’Est e dell’Ovest si impegnarono a riempire quelli che furono indicati come i “tre panieri” della Conferenza: la sicurezza, che non prevedeva il disarmo ma la possibilità di “ispezioni sul posto” nei campi avversi; la cooperazione in tutti i campi dall’economico allo scientifico; e infine – un risultato che parve sorprendente – i diritti umani e le libertà fondamentali. Sorprendente perché a firmare l’atto per l’URSS era stato Leonid Breznev, non sospetto di attitudini liberali; eppure molti in Unione Sovietica hanno poi ritenuto che l’entrata in crisi del regime comunista abbia avuto tra le sue cause proprio la diffusione dei principi di Helsinki e, tra essi, l’affermazione della libertà di pensiero e di associazione.

Diplomazia popolare

L’altro episodio è quello del negoziato sugli euromissili degli anni ’80 che ebbe come protagonisti non solo gli stati che si confrontavano nella trattativa ma anche una componente di “diplomazia popolare” che trovò il modo di raggiungere Ginevra, dove avvenivano gli incontri, per convincere le due delegazioni dell’assurdità del criterio strategico che era alla base della scelta di installazione degli euromissili: cioè, il criterio della fattibilità di una guerra nucleare limitata. In proposito memorizzai la risposta che il generale americano che partecipava al negoziato dette alla nostra domanda diretta: «Certamente, una guerra nucleare limitata è possibile. Ma io non vorrei esserci».

Com’è noto, alla fine un’intesa fu raggiunta e i missili in questione furono smantellati e distrutti. Più avanti, si fece anche un patto per mettere un freno agli altri missili, quelli intercontinentali, e ci si impegnò in vario modo per impedire la proliferazione degli armamenti atomici. Furono anni di grande speranza, alimentata anche dal fatto che il comunismo sovietico si stava dissolvendo e che era possibile consolidare le speranze.

Si giunse persino – in un convegno della Democrazia Cristiana al quale partecipai come senatore – a immaginare un saggio utilizzo di quello che veniva chiamato il «dividendo della pace»: destinare quel che si sarebbe risparmiato in armamenti allo sviluppo delle regioni più arretrate del mondo.

Mai come in quella occasione parve appropriata la sentenza di Paolo VI «lo sviluppo è il nome nuovo della pace», così come al tempo degli euromissili ci eravamo appellati a Giovanni XXIII che bollava come “roba da matti” (alienum a ratione) l’eventualità di una guerra nucleare.

Speranza in crisi

Persino in Parlamento fu possibile costruire in tema di disarmo una posizione convergente tra Dc, Pci e Psi come conclusione di un’indagine sul disarmo che venne conclusa dall’allora Ministro degli Esteri on. Andreotti. Ma la stagione della speranza finì presto.

Già nel 1991 eravamo in piena “guerra del Golfo” ed era ben fondata la constatazione del card. Etchegaray: «Non abbiamo perduto la pace il giorno in cui è scoppiata la guerra; l’avevamo già sprecata durante tutti questi anni, lasciando che si accumulassero tanti rancori, tante frustrazioni, tanta disperazione». Segno che non avevamo fatto abbastanza nemmeno noi che alla possibilità della pace avevamo creduto.

Ecco: non c’è bisogno di esplorare un tempo ulteriore, includendovi il terrorismo islamico, le tendenze neorazziste e le attitudini muscolari degli ultimi tempi. Viviamo un momento in cui escludendo dal proprio orizzonte la ricerca della pace, la politica – stando al linguaggio di Francesco – mostra di non essere “buona”. E qui le piste si ricongiungono e la catena si ricompone: se la buona politica produce la pace, la ricerca della pace non può non produrre la buona politica.

Si tratta di cominciare.

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