Già prima delle elezioni, in una parte delle polemiche della campagna elettorale, ed anche ora, nella delicata fase di confronto post-elettorale, un tema avrebbe meritato una attenzione ben diversa: mi riferisco all’uso del modo congiuntivo dei verbi, su cui non sembrano “forti” alcuni leader politici.
La cosa non deve essere valutata soltanto come l’emergenza di un “errore grammaticale”, che squalificherebbe la cultura scolastica di alcuni soggetti politici. Senza negare il problema, non è questo il punto. In realtà, la prevalenza dell’indicativo sul congiuntivo è anche un’indiretta e forse anche inconsapevole “scelta politica”, che strizza l’occhio alle forme con cui la cultura comune sospetta di ogni parola che esca dal “regime ordinario” di uso del linguaggio, il quale spesso viene identificato con il “modo indicativo” e con il ”modo imperativo”. Il sottotesto di questa “infrazione del congiuntivo” sarebbe l’intenzione di evitare le faticose circonlocuzioni che nasconderebbero, mistificherebbero, altererebbero la realtà. Il politico nuovo va dritto alla realtà, senza tanti giri di parole…
Ma il “digiuno dal congiuntivo” è possibile solo “in negativo”. Finché non si assume la responsabilità, si può parlare solo all’indicativo e all’imperativo. Quando si inizia anche solo a prevedere una responsabilità più ampia, occorre attrezzarsi con un bagaglio espressivo più ricco e più complesso.
A ben vedere, infatti, rispetto all’indicativo e all’imperativo – che indicano fatti e compiti – gli altri “modi” sono capaci di indicare – e di vedere – opzioni, ipotesi, condizioni, circostanze, variabili. Il valore ipotetico, condizionale, ottativo di una proposizione non è solo un modo per “non fare le cose”, ma anche un preziosa forma di riconoscimento della realtà, in tutta la sua complessa ricchezza.
Alla radice dei nostri sorrisi, di fronte ad un presidente della Camera che non riesce a costruire un verbo usando le preposizioni giuste, o a un candidato alla Presidenza del Consiglio, che non riesce a esprimere un’eventualità o una condizione in modo corretto, non deve consistere soltanto in un giudizio sulla sua cultura, ma in una preoccupazione per la realtà che riesce a percepire.
Non solo i modi dei verbi, ma anche i tempi e l’uso delle preposizioni ad essi collegate, indicano non tanto una “capacità espressiva dei soggetti”, quanto anche la possibilità di una comprensione articolata e complessa della realtà. In altri termini, non è soltanto in questione una capacità “linguistica” dei soggetti politici, ma la qualità dell’esperienza che essi fanno della realtà e che può orientare le loro decisioni.
Per questo motivo sarebbe molto utile un buon uso del condizionale e del congiuntivo per capire i margini (ristretti) di libertà con cui un presidente della Camera può continuare (o iniziare) ad usare il bus per andare al lavoro. Ed è altrettanto prezioso far buon uso del futuro anteriore o del trapassato remoto, per distribuire adeguatamente colpe agli avversari e meriti a se stessi, senza confusione e senza separazione.
Nel famoso discorso di Gettysburg, Abramo Lincoln concluse il suo brevissimo e intensissimo intervento, al cospetto di tanti caduti sul campo di battaglia, facendo uso di tre preposizioni davanti alla parola popolo e dopo la parola governo: “governo del popolo, dal popolo e per il popolo”. Questa grande idea, che ogni democrazia ha pur sempre come compito da realizzare, richiede grammatiche, sintassi e retoriche altamente complesse. Il sospetto verso il linguaggio presume che esso possa essere ridotto soltanto a strumento. Invece esso è anzitutto facoltà culturale decisiva per percepire e riconoscere la realtà nella sua complessa articolazione e per intervenire su di essa in modo non semplicistico ed efficace.
Pubblicato il 30 marzo 2018 nel blog: Come se non.