È ampiamente documentato da tutti gli istituti di ricerca che il comportamento elettorale dei cattolici da molto tempo in Italia è esattamente uguale a quello degli altri cittadini. La fede cristiana, il Vangelo, il Magistero del Papa e dei Vescovi non sembrano esercitare alcuna significativa influenza. Com’è possibile, posto che in passato non è sempre stato così?
Evidentemente non sto ponendo un problema politico, essendo io il primo a riconoscere il valore dell’autonomia dei laici di fronte alle questioni temporali e, conseguentemente, il valore del pluralismo politico. Mi permetto di porre un problema ecclesiale e, più precisamente, il problema dell’influenza della fede nelle persone credenti nel guardare il mondo, nel rapportarsi con il mondo.
La Lumen Fidei (l’enciclica che porta la firma congiunta dei due ultimi pontefici) afferma infatti, al numero 18, «Nella fede Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione dell’amore di Dio, ma anche Colui a cui ci uniamo per potere credere. La fede non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere». È un modo diverso, originale, di vedere il mondo. Dov’è finita oggi questa diversità, questa originalità, se i cristiani ragionano e si comportano come chi non ha fede? E se non sentono neppure imbarazzo, proprio perché non avvertono l’importanza di “guardare” con gli occhi formati e informati dalla fede. La cosa evidentemente non riguarda soltanto i comportamenti politici, ma quelli sociali in generale. Se l’etica sessuale, quella professionale, quella sociale, quella della responsabilità è l’etica del mondo, a che serve la fede, viene da chiedersi?
Proprio recentemente il Vescovo di Reggio Emilia, mons. Massimo Camisasca, in un discorso alla città sul tema dei cattolici e il loro rapporto con la politica, ha avanzato una proposta a prima vista stravagante, ma non lo è per nulla: «Non voglio radunare i credenti per parlare di politica, ma vorrei incontrare i politici credenti per parlare della fede». Questo a me pare il punto.
Ricordo con sufficiente precisione un saggetto su questo tema dell’allora rettore dell’Università cattolica, Giuseppe Lazzati, apparso su Vita e Pensiero all’indomani delle elezioni politiche del 1983, che – tra altri dati imprevisti – registrarono un calo di sei punti percentuali della Democrazia Cristiana.
A quei tempi non si era ancora abituati alla mobilità dell’elettorato che abbiamo conosciuto in seguito, e quel risultato destò un certo scalpore. Ma in una qualche misura ne destò anche la presa di posizione del prof. Lazzati, non foss’altro perché non era abituato, sia per la sua funzione che per un certo distacco dalla stessa Democrazia Cristiana dopo la pur importante esperienza di costituente, ad assumere posizioni pubbliche su questioni politiche. Evidentemente aveva accolto significati preoccupanti in quel dato.
Il suo ragionamento cominciava con una citazione di alcuni punti delle costituzioni conciliari Gaudium et Spes e Lumen Gentium per rilevare che a suo avviso di quei testi la gran parte dei parroci aveva dato una lettura errata. È vero che il Concilio aveva stabilito finalmente una netta distinzione, all’interno del Popolo di Dio, fra le competenze dei laici e quelle dei presbiteri, ma non aveva sollevato questi ultimi da responsabilità e doveri per quanto riguarda l’impegno politico. È vero che ai preti non è più suggerito di dare indicazioni elettorali, che competono alla coscienza, all’intelligenza e alla responsabilità dei singoli credenti, ma chi educa i laici a un corretto rapporto fra fede e politica? Nelle parrocchie non si parla più di politica per non dividere la comunità, ma ciò non impedisce di parlare della relazione fra fede e politica in un determinato momento storico.
Quali sono – si chiedeva Lazzati – quei confessori che in prossimità di elezioni chiedono ai penitenti se intendono andare a votare e ricordano loro che sottrarsi a tale dovere è peccato? E chiedono loro se si apprestano a farlo con adeguato discernimento. Ciò che colpisce è infatti la superficialità, l’indifferenza e la disinvoltura: andare a votare o non andarci sembra essere la stessa cosa, votare un partito o votare scheda bianca pure, votare Democrazia Cristiana o Democrazia Proletaria o Democrazia Nazionale (i partiti più a sinistra o più a destra di allora) pure. La disinvoltura, appunto. Non mi interessa – aggiungeva – per chi scegli di votare, ma se lo stai facendo con discernimento, cioè non sbadatamente, ma dopo averci riflettuto seriamente e aver riflettuto sulle conseguenze e sulla coerenza delle conseguenze con il tuo modo di pensare e di dare valore alla vita. Il discernimento, appunto.
Chi educa oggi al discernimento? Chi trasmette oggi nelle nostre parrocchie anche solo la conoscenza dei punti di riferimento (Vangelo e Magistero) che possano servire al discernimento politico per i credenti? Lazzati concludeva l’articolo in modo icastico: «Chi educa più oggi nelle parrocchie al rapporto fede-politica? Forse basterebbe educare alla fede».
Personalmente non sono più impegnato in parlamento e in politica, dunque, non ho interessi particolari, anzi so benissimo che l’educazione alla conoscenza e alla coerenza potrebbe portare a opzioni politiche diverse dalle mie, ma credo che oggi più che mai non sarà possibile cambiare la politica, se non si lavora a monte se, cioè, non si cambia l’antropologia di questo paese. Da una qualche parte bisognerà pur partire e io penso che si debba partire proprio dai cristiani. Ma – si obietta – i cristiani da soli non riusciranno a cambiare pelle al paese, sono ormai minoranza. Ma sono minoranza significativa, ancora importante quantitativamente e soprattutto sotto il profilo dell’autorevolezza etica.
In questi giorni in cui si celebrano tanti importanti anniversari, mi viene spesso alla mente un pensiero di un leader del dissenso politico, che diventò poi presidente della repubblica cecoslovacca, Vaclav Havel: «Chi dice che i singoli non sono in grado di cambiare le cose, sta solo cercando scuse».
Ma vi è un altro aspetto che, a mio avviso, soprattutto da parte dei sacerdoti, dovrebbe essere considerato. La disinvoltura nei comportamenti elettorali è solo un aspetto di un problema che ha molte altre sfaccettature.
Andando in giro, nelle università o nelle parrocchie a fare formazione politica, incontro tanti giovani credenti che, nel dopo conferenza, mostrano interesse ad approfondire aspetti specifici dei temi trattati. Da un po’ di tempo, quando individuo un nucleo di credenti, faccio io loro qualche domanda del tipo, «quali sono per voi i valori cui vorreste orientare il vostro impegno?». Le risposte sono sempre le stesse: al primo posto ci sono le problematiche ambientali e, quasi sempre, al secondo posto il “diritto” ad avere riconosciuto il diritto alla totale autonomia nella amministrazione delle questioni della propria vita, in particolare del proprio corpo, e in genere delle questioni che noi adulti classifichiamo come eticamente sensibili, come aborto, divorzio, convivenze, fine vita, eutanasia. Non credo, in questo caso, si debba parlare di leggerezza o disinvoltura, quanto piuttosto di corrispondenza allo spirito del mondo che, normalmente, rifiuta appunto il valore del limite. È scomparsa insomma la “differenza cristiana”, come la chiama Enzo Bianchi.
So bene di avere detto cose ampiamente conosciute da chi fa quotidianamente attività pastorale e riflette sulle inchieste di Franco Garelli o Armando Matteo. Mi sono permesso di farlo per mettere in rilievo il dato che se oggi è difficile per i credenti orientarsi sul piano elettorale, è ancor più per i credenti impegnati in politica interpretare il sentimento degli elettori credenti e nello stesso tempo le indicazioni del magistero ecclesiale. E l’ho fatto, infine, perché mi preme ribadire che per i cristiani, soprattutto per i giovani, avverto oggi l’urgenza dell’educazione al discernimento e, in ultima analisi, dell’educazione alla fede.
Pubblicato sulla rivista di spiritualità pastorale Presbyteri, n. 10, 2019, 774-777.