L’incarico a Giuseppe Conte, la gestazione del nuovo esecutivo, il suo programma, il ruolo dei partiti e delle istituzioni. Arrivati al punto di svolta della fase post-elettorale e della formazione del nuovo governo, facciamo il punto con Paolo Pombeni, storico e analista tra i più autorevoli del sistema politico italiano.
– Che impressione le ha fatto il primo discorso del presidente del Consiglio incaricato?
Non mi è sembrato un esordio particolarmente felice. Il discorso sembrava voler dare un colpo al cerchio e uno alla botte, come si suol dire. Da una parte l’Europa, le alleanze, i poteri del presidente del Consiglio, tutti i temi messi in campo da Mattarella, dall’altra gli slogan dei partiti che lo hanno proposto per quel ruolo. Ma forse, trattandosi di un debutto assoluto, in questo esordio non brillantissimo può aver pesato un certo spaesamento per il nuovo ruolo.
– Magari qualcosa di più si capirà dalla lista dei ministri…
Sono molto scettico. Le nomine dei ministri nel loro complesso sono sempre state frutto del potere dei partiti. Non dimentichiamoci che si parlava delle ‘delegazioni’ di questo o quel partito all’interno del Consiglio dei ministri. Oggi però questa operazione viene compiuta con più brutalità che in passato, viene addirittura rivendicata.
Per capire di più dovremo aspettare il momento in cui comincerà a funzionare la macchina dei ministeri, quando i nuovi dovranno confrontarsi con gli apparati amministrativi che non sono diretti da dilettanti e che presenteranno le coordinate concrete delle situazioni. Allora si vedrà chi gioca a fare lo sfasciacarrozze e chi invece sa muoversi con realismo.
– Nella mia domanda mi riferivo in particolare alla scelta del ministro dell’Economia, su cui ora si concentra tutta l’attenzione. Le cronache raccontano di un braccio di ferro sull’economista Paolo Savona, noto per le sue posizioni anti-Euro.
È un’occasione per misurare fino a che punto riesce a spingersi l’ultrapotere dei partiti. Per il resto, bisogna tenere presente che un conto è parlare quando si è un libero battitore, un conto è parlare da ministro. Il problema principale secondo me è un altro.
– Quale?
Per molti aspetti quel che si appresta a nascere ha tutta l’aria di un governo elettorale.
– Vale a dire come prosecuzione della campagna elettorale e nella prospettiva di una nuova?
Angelo Tasca (uomo politico e storico, con Gramsci uno dei fondatori de L’Ordine Nuovo, ndr) definì il fascismo una «controrivoluzione postuma e preventiva», in quanto andò al potere sull’onda del timore di una «rivoluzione rossa» quando i sommovimenti che potevano indurre questa preoccupazione erano ormai esauriti.
In tutt’altro contesto e, ovviamente, senza accusare nessuno di fascismo, da storico mi sembra che ci siano dei parallelismi con la situazione attuale: oggi la «rivoluzione» – chiamiamola così – è postuma perché arriva quando finalmente la crisi sembrava in via di superamento, ed è preventiva, perché la paura che la crisi ritorni spinge a voler essere rassicurati.
C’è sempre una sfasatura tra l’azione di governo e la percezione degli effetti della stessa. Paradossalmente, se adesso l’economia dovesse migliorare in misura più sensibile, l’opinione pubblica finirebbe per attribuirla al cambio di governo.
– Il presidente del Consiglio incaricato ha fatto esplicito riferimento al «contratto» tra M5S e Lega come base per il programma di governo. Come valuta quel documento?
Mi sembra che si giochi sull’ambiguità delle parole. Tutti i governi, diciamolo, hanno messo giù grandi programmi molto teorici. Siccome però a lungo andare l’opinione pubblica è diventata diffidente, invece di programma si è preferito parlare di «contratto», anche se poi quel documento non ha gli elementi per essere definito tale. Con un po’ di malizia si potrebbe vedere anche questa scelta in un’ottica elettorale. È come se le due forze si fossero tenute pronte una via d’uscita: se qualcuno non si attiene al contratto o ne impedisce l’attuazione, io sono legittimato a sfilarmi senza pagare dazio.
– Gli ultimi giorni, direi anche le ultime ore prima dell’incarico a Conte, sono stati segnati da attacchi grevi e perfino minacciosi nei confronti del Presidente della Repubblica. C’è innegabilmente un problema di rapporto con le istituzioni, che rappresentano tutti gli italiani, non solo chi ha votato i partiti che hanno la maggioranza in Parlamento.
Questo è un punto nevralgico. Alla base c’è un’idea totalitaria del partito. Totalitaria in senso tecnico, dalla pars pro toto. Si pensa di rappresentare la totalità della nazione perché si possiede l’unica idea buona. È un discorso molto pericoloso su cui bisognerebbe aprire un dibattito. Anche in questa chiave diventa particolarmente importante il ruolo delle istituzioni di garanzia e il rispetto nei loro confronti, che naturalmente non esclude la possibilità di una critica civile.
Il concetto di «popolo» che si usa con tanta disinvoltura è molto scivoloso. Tanto più se lo si utilizza per fare pressione sulle istituzioni che sono chiamate a garantire la continuità del sistema democratico. Per assurdo, non è che se il «popolo» decidesse di linciare qualcuno il Presidente della Repubblica dovrebbe attivarsi per preparare la forca.
– È anche vero, professore, che le forze uscite sconfitte dalle elezioni appaiono in gravissima difficoltà e incapaci di avviare la costruzione di un’alternativa per il futuro. Nessuno può illudersi che si possa tornare indietro…
Se le forze che hanno vinto possono pensarsi come pars pro toto, dipende anche dal fatto che l’altra metà della popolazione non trova una rappresentanza. Le forze ora all’opposizione appaiono prive di un disegno politico, tutte prese dalle loro camarille e dai giochi interni di potere. Questo rischia di costringere le forze della società non politica, anche quelle che non si riconoscono nei partiti della nuova maggioranza, a venire a patti con essi in assenza di altri potenziali interlocutori politici. E in parte ciò sta già avvenendo.
– Il contesto internazionale, e quello europeo in particolare, in che misura influenzeranno le scelte del nuovo governo?
Credo che se non ci saranno esagerazioni nell’atteggiamento dell’esecutivo italiano sul piano europeo e internazionale, alla fine i protagonisti di quel contesto gestiranno la situazione com’è meglio per loro. Un approccio cinico e realista perché alla fine un’Italia politicamente fragile e isolata va bene anche gli altri.
Riprendiamo l’intervista di Stefano De Martis allo storico Paolo Pombeni pubblicata lo scorso 24 maggio 2018 sul sito dell’Agenzia SIR.