Ci sono articoli che si scrivono da soli, come quelli sull’inadeguatezza della classe dirigente di questa destra. La difficoltà è andare oltre l’ovvia constatazione che lo slogan elettorale del 2022 – «pronti!» – era pubblicità ingannevole, o almeno andava precisato che cosa erano «pronti» a fare una volta arrivati al potere.
Se avessero reso chiaro che «pronti» significava «siamo pronti a usare le istituzioni per difenderci dai processi a attaccare i nostri avversari politici» forse avrebbero preso meno voti.
Il doppio caso La Russa
Ignazio La Russa non dimostra alcuna considerazione per la carica che ricopre, la seconda più alta dello Stato: il presidente del Senato non solo commenta la vicenda del figlio indagato per stupro (e poteva evitare) ma interviene nel merito.
Dice che ha interrogato Apache (che è fratello di Cochis e Geronimo, sul serio), che la ragazza era drogata (cosa che, peraltro, potrebbe essere un’aggravante per gli accusati, a seconda del fornitore) e che lui era a casa la notte del presunto stupro. Tanto da aver salutato i due ragazzi al mattino come se niente fosse.
Ora, la vicenda di Beppe Grillo dovrebbe aver insegnato qualcosa: le intemperanze del padre non hanno certo semplificato la difficile posizione processuale del figlio Ciro, ma hanno trasformato una delicata indagine con accuse gravi e vittime da tutelare in un circo di dichiarazioni, polemiche e prime pagine.
Nel caso di La Russa c’è l’aggravante che, nella fortunatamente implausibile ipotesi di un vuoto al Quirinale, il presidente del Senato subentrerebbe pro tempore al capo dello Stato e si troverebbe così a presiedere il Consiglio superiore della magistratura da cui dipendono i PM che indagano sul giovane Leonardo Apache La Russa.
Poi c’è ovviamente il caso Daniela Santanché, che però è anch’esso un po’ un caso La Russa visto che da avvocato consigliava la società Visibilia dell’attuale ministro del Turismo ancora nel 2021. La questione più misteriosa è perché La Russa fosse in rapporti sia con Visibilia e il mondo di Daniela Santanché che con il misterioso fondo emiratino Negma che interviene per dare alle aziende decotte della futura ministra la liquidità che mai le banche le avrebbero concesso.
Segnalo dalla trascrizione dell’inchiesta per Report di Giorgio Mottola:
«Ma eccolo il verbale, nero su bianco viene segnalata la partecipazione via telefono dell’avvocato Ignazio La Russa alla presenza di tutto il collegio sindacale, di Daniela Santanché e del nostro Dimitri Kunz. Nello stesso periodo La Russa non svolgeva attività legale in prima persona solo per Visibilia, ma anche per Negma. Per conto della società di Dubai, l’attuale presidente del Senato invia al quotidiano online Milano Today una diffida con in calce la sua firma Ignazio Benito Maria La Russa».
I soldi di Negma hanno tenuto in vita le società, ma diluito – cioè ridotto il valore – delle azioni in essere, quindi Santanché ha tenuto il comando ma i piccoli soci hanno perso tutto e ora le fanno causa.
La traiettoria mediatica della vicenda Santanché continua a stupirmi: onore a Report di Sigfrido Ranucci che è riuscito a rendere un caso politico vicende che, in varia forma, si trascinano da anni e che più volte abbiamo raccontato sui giornali senza che la carriera di Santanché ne risentisse.
La reputazione di imprenditrice di Daniela Santanché è poco meritata, o almeno non dovrebbe essere ostentata, visti i disastri recenti e passati. Anche l’indignazione della ministra contro Domani che ha scritto che è indagata per bancarotta è poco comprensibile, visto che la notizia dell’indagine è di novembre 2022.
Da che cosa si difende esattamente Santanché? Non si capisce, vuole presentarsi come vittima ma risulta difficile visto che sono i soci di minoranza delle sue società fallite a denunciarla, non certo gli avversari politici.
Sindrome complotto
Silvio Berlusconi è riuscito a ipnotizzare per anni gli italiani con la tesi che ci fosse un grande complotto delle procure contro di lui, ma la destra meloniana non ci riuscirà. Fanno tutto da soli e si mettono nei guai anche quando la magistratura non è ostile.
Nel caso del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Dellevedove – ex legale personale di Giorgia Meloni – la procura di Roma aveva chiesto l’archiviazione ma il giudice per le indagini preliminari ha disposto l’imputazione coatta per rivelazione di segreto.
Qui i fatti non sono oggetto di dibattito – Delmastro ha rivelato al suo coinquilino e compagno di partito Giovanni Donzelli conversazioni segrete tra il detenuto Alfredo Cospito e alcuni boss, Donzelli le ha usate in aula contro gli avversari del PD – il punto è soltanto se Delmastro sapeva o meno che si trattasse di carte riservate.
Non si sa cosa è peggio, un sottosegretario che manco ha chiaro quello che deve rimanere segreto o uno che lo rivela consapevolmente a fini politici. Il PM pensava che Delmastro fosse inconsapevole, il GIP che sapesse tutto.
Palazzo Chigi, invece di accettare che ci possano essere valutazioni diverse tra i magistrati, ha fatto circolare una nota nella quale dice che è «lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee».
Sarebbe anche lecito domandarsi come mai il centrodestra abbia candidato soltanto persone così inadeguate e con una spiccata propensione a finire in tribunale.
La risposta sta in alcune altre nomine e scelte che chiariscono l’origine del problema: la dimensione tribale, o quantomeno familiare, della politica secondo questa destra e Giorgia Meloni in particolare.
Un approccio che si sostanzia nella nomina di Arianna Meloni, sorella di Giorgia, moglie del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, a capo del tesseramento di Fratelli d’Italia. Perché un incarico così poco visibile e non certo prestigioso alla sorella della premier? Perché chi vigila sulle tessere può evitare che ci siano ingressi nel partito tali da cambiarne i rapporti di forza, con il rischio di scalate interne. Arianna Meloni, insomma, è nella posizione di incidere su quanto sia scalabile il partito e contendibile la presidenza affidata da dieci anni – senza voti e per acclamazione – a Giorgia Meloni.
Nel frattempo la RAI si riempie di personaggi come Pino Insegno, che invece di rivendicare soltanto il proprio curriculum fanno sapere da quanti anni sono amici di Giorgia Meloni.
Le poche persone con un po’ di spessore autonomo e non appartenenti alla tribù si iniziano a sentire a disagio in un governo dominato da queste regole. Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano non riesce a liberarsi del sottosegretario Vittorio Sgarbi che ha pubblicamente stroncato per le battute sessiste e il turpiloquio, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti non riesce a far approvare la riforma del MES perché prevalgono le paranoie sovraniste di Meloni e soci, il ministro degli Esteri Antonio Tajani cerca di dare una patina di rispettabilità europea che si squaglia ogni volta che nel PPE o alla Commissione leggono i giornali italiani.
Cose pubbliche, benefici privati
Avete notato che Fratelli d’Italia non riesce ad assorbire chi, da Forza Italia, cerca un futuro politico?
Tajani è un corpo estraneo, la ministra Annamaria Bernini – altra persona seria, per quanto berlusconiana – si è inabissata, di altri ministri in quota FI tipo Paolo Zangrillo non si conosce neppure la faccia… Nella famiglia meloniana non c’è posto per chi viene da tradizioni diverse da quelle dei «partiti della fiamma» (MSI-AN-FdI).
Ma neppure c’è il coraggio di prendere davvero le distanze da personaggi come Marcello Dell’Utri: Meloni non ha nulla da dire su un condannato per mafia che riceve 30 milioni di euro da Berlusconi dopo trent’anni di silenzi sui rapporti con Cosa Nostra? Eppure la premier dice di fare politica nel nome di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino…
E in tutto questo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è costretto al doppio del lavoro per rimediare all’irrilevanza internazionale del governo e al fastidio che questo suscita tra i potenziali alleati europei, in particolare Francia e Germania.
Il Quirinale è l’unico contropotere che questo esecutivo ancora non ha attaccato e sfidato, dopo che ha commissariato INPS e INAIL, indicato un nuovo governatore per Banca d’Italia (cf. qui), neutralizzato la Corte dei Conti, intimato alla magistratura di non esprimere opinioni sulle riforme della giustizia, ignorato i sindacati, querelato i giornali…
Erano pronti a prendere il potere e sapevano cosa farne. Ma, comprensibilmente, non avevano alcuna ragione di dirlo agli elettori che però – presto o tardi – puniscono sempre chi gestisce la cosa pubblica in nome di interessi troppo privati.
Pubblicato sulla newsletter Appunti il 9 luglio 2023