Non è un caso se l’anno nuovo 2020 è stato inaugurato a Trieste dalla morte politicamente non accidentale, anche se di fatto accidentale, di un migrante, caduto in un burrone di 20 metri davanti agli occhi della moglie. Ecco quanto ne dice un amico testimone, così come è riportato da una giornalista. «Parla il profugo marocchino che viaggiava insieme al trentenne morto in Carso dopo essere caduto in un dirupo: “Sto impazzendo, rivedo di continuo l’immagine di Ahmad nel precipizio” vicino a Trieste. “Non dormo da tre giorni, sto impazzendo. Bevo solo acqua, non sono riuscito a mangiare nulla”. Adil Belassaui preme le dita della mano sulle palpebre degli occhi, per respingere le lacrime che non è capace di placare.
Non riesce a togliersi dalla testa l’immagine del viso insanguinato del suo amico algerino, conosciuto appena pochi giorni prima al confine con la Croazia. Mancavano pochi metri e sarebbero arrivati entrambi sani e salvi in Italia. Invece Ahmad, così si chiamava il 30enne morto poco prima dell’alba del 1 gennaio nella zona di San Servolo, è scivolato in un precipizio profondo venti metri. Con loro c’erano altri sei migranti, tra cui la moglie di Ahmad, Fatima Zahra Belmokhtar, 27 anni, ora ospite della Caritas al Teresiano. In Algeria la coppia aveva lasciato con i nonni il figlio di sei mesi». (Piccolo di Trieste 4 gennaio).
L’animale «profugo»
Ed è purtroppo una inaugurazione significativa dei nostri tempi, in questa città di confine, più di confine di chiunque altra per le sue vicende dal 1919 a oggi: una città dal confine mobile, inquieto, non solo politico ma anche culturale (Trieste è ancora una città bilingue). Ahmad è caduto su quel confine, sotto il castello di san Servolo, a cui nel 1955 il maresciallo Tito condusse Krusciov ad ammirare il golfo e, simbolicamente, l’Europa.
Oggi, il confine mobile e tormentato di Trieste conosce un’altra stagioneche assume toni grotteschi, come accade spesso negli ultimi anni da parte degli esponenti politici. Leggiamo, infatti, sui giornali locali: «arrivano le foto-trappole lungo i sentieri che segnano il confine tra Italia e Slovenia. Serviranno a “scovare” i profughi che tentano di raggiungere il Friuli-Venezia Giulia dalla rotta balcanica. Si tratta degli stessi dispositivi generalmente utilizzati per monitorare la fauna selvatica» (Il Gazzettino).
L’annuncio è stato firmato dall’assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti. Annuncio grottesco, questo che equipara i migranti agli animali, un vero e proprio lapsus rivelatore di una mentalità che si vuole diffondere. Annuncio, inoltre, privo di validità legale, come spiega un comunicato dell’ICS (Consorzio italiano di solidarietà di Trieste), perché la Regione non ha competenze in materia di confini.
«Tutto quindi si risolve in una sguaiata e crassa propaganda attuata per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal vero problema: la totale fuga della Regione dalle competenze regionali previste dall’ordinamento giuridico, ovvero la realizzazione (che risulta inesistente) di programmi di inclusione sociale degli stranieri al fine di favorire la coesione sociale e la crescita economica e sociale del territorio».
Il confine orientale
Se, con l’annuncio dell’assessore Roberti, cadiamo nel grottesco, tuttavia la morte di Ahmad ci ricorda che il grottesco può coprire il dramma e la morte (come spesso accadeva nel fascismo) e che il confine orientale conosce una nuova drammatica stagione.
La morte di Ahmad, avvenuta alla fine del viaggio, in vista dell’immaginaria terra promessa e sotto gli occhi della moglie, ha un elevato valore drammaticamente esemplare. Indica, infatti, il rischio anche mortale del game, il gioco, come i migranti chiamano il viaggio attraverso i Balcani verso l’Europa, in cui effettivamente mettono in gioco tutto, anche la vita (centinaia sono i morti su questa rotta…). Ha un valore simbolico perché indica qualcosa che vale per centinaia di migliaia, milioni di persone; per tutto quell’immenso territorio che comprende l’Africa, il cosiddetto Medioriente, dall’Afganistan allo Yemen e anche paesi asiatici, come il Bangladesh, e la stessa grande potenza India.
Indica la ricaduta in Europa del colonialismo, dello sfruttamento illimitato di esseri umani e territori, del caos creato in molto paesi dall’intervento occidentale.
I migranti, i profughi, che sopravvivono e che riescono a sfuggire, magari alla quindicesima o ventesima volta, ai respingimenti della polizia croata, accompagnati di norma da violenze che si spingono sino alla tortura vera e propria (oltre che al furto di abiti, denaro e cellulare), arrivano in gran parte qui, a Trieste (in minor parte a Gorizia).
E noi li incontriamo sul piazzale della stazione, che si chiama, paradossalmente, Piazza Libertà, davanti al monumento dell’imperatrice Elisabetta, fra colombi, gabbiani e topi. Noi chi?
I piedi di chi cammina
Noi del Gruppo Cura: Lorena, Azra, Goga, Adriana, Paola, Elisa, Francesca, Sofia, Carlo, Gianluca, Gian Andrea, e anche altri saltuariamente.
Lorena e io già da un anno circa, oltre al nostro impegno in Bosnia, avevamo tentato di formare un gruppo che intervenisse a Trieste. Senza riuscirci. Fino a quando, senza una nostra intenzione precisa, è scoppiata la potenza dell’immagine. E di Internet. Lorena ha avuto l’idea di divulgare sui cosiddetti social una sua foto, fatta da me, mentre curava i piedi di un migrante in piazza.
Questa foto ha rapidamente agito come il coagulante di un gruppo di amici e conoscenti, che, però, prima di quel momento non erano passati all’azione e soprattutto all’azione continuativa, che è la vera azione.
La foto testimoniava la realtà di un’azione, appunto. L’azione trasforma una possibilità in un atto. Il gesto di curare dei piedi feriti suscitava inoltre l’immaginario antico della lavanda dei piedi o anche la figura del buon samaritano. Era insomma un gesto dall’elevato potere simbolico. E insieme segno efficace di un tipo di rapporto, il rapporto con un corpo in viaggio, il corpo di un migrante, di colui che ha assolutamente bisogno dei piedi. E questi piedi, i piedi di chi cammina per luoghi impervi e impervi perché deve nascondersi, sono quasi sempre gonfi, feriti, quando arriva al principale approdo della tratta balcanica, a Trieste, per continuare nella tratta europea.
Bisogna dire, infatti, che i migranti di cui il Gruppo Cura si occupa, sono quelli che non vogliono fermarsi in Italia, malgrado qui le condizioni possano essere anche migliori in alcuni casi, ad esempio per gli afgani, il cui paese è riconosciuto come insicuro dall’Italia, a differenza degli altri paesi europei.
Quelli che noi intercettiamo – qualche decina al giorno, a seconda delle stagioni e delle condizioni climatiche, fino a una cinquantina e più – sono quasi sempre in viaggio per l’Europa centrale e del nord.
Le cose necessarie
La cura sanitaria, non solo dei piedi, delle articolazioni e anche altro, nei limiti di un supporto infermieristico, è il primo e più importante intervento: per i casi più gravi cerchiamo di indirizzare all’associazione S. Egidio o al centro diurno S. Martino dove ci sono medici (in questo centro interveniamo anche noi per alcune ore il sabato).
Ma, ovviamente, questo primo intervento non può essere separato da altro: prima cosa scarpe, buone scarpe adatte a lunghi cammini; poi indumenti adeguati, principalmente giacconi in inverno, e qualche alimento, te caldo, cioccolata, alimenti energetici.
Ma, soprattutto, relazione: non è un atto di carità da chi può a chi non può, vuol essere un atto di riconoscimento della piena dignità del singolo, di costruzione di un momento di socialità autentica.
È un gesto profondamente politico, non di chi fa politica, ma di chi è politico, perché vive nella polis umana e riconosce a tutti uguaglianza, fraternità, libertà, a cominciare da coloro cui è negata.
Politica
Devo dire che l’impegno regolare del gruppo ha avuto un certo successo, con interviste di Rai 3 nazionale e locale, qualche articolo, anche su giornali nazionali. Speriamo che questo modesto lucore mediatico possa servire a un maggior coinvolgimento.
L’atteggiamento delle cosiddette autorità locali e centrali, cioè della polizia locale e della Questura, è stato finora tollerante: passano guardano e vanno oltre. Segno che non riescono a controllare i flussi migranti e, in mancanza di meglio, preferiscono lasciar partire chi vuol andarsene fuori dai piedi…
Nella piazza circolano anche alcune figure ambigue di migranti, che parlano un discreto italiano: facilitatori, come li chiamiamo, o anche passeur, probabilmente, elementi terminali di queste articolate e complesse catene di sfruttamento delle migrazioni, che lucrano sul bisogno; ma non posso dimenticare che da qualche migrante li ho sentiti definire ‘angeli’ – la realtà ha sempre più volti.
Noi continueremo nel nostro impegno, cercando di allargare il gruppo, di renderci sempre più visibili, in mezzo alla città. È un’opera di resistenza contro un degrado politico, culturale, materiale della nostra società e insieme un tentativo di costruire forme visibili di socialità solidale.
Non basta. È opportuno trattare anche di un altro aspetto della questione migranti dalle nostre parti.
A poche decine di chilometri da Trieste, in provincia di Gorizia, in una ex caserma, dove è ancora attivo il CARA (Centro d’Accoglienza per Richiedenti Asilo), è aperto dai primi di gennaio un CPR (Centro Permanenza e Rimpatrio), dove vengono rinchiusi coloro che hanno avuto un provvedimento di espulsione e devono essere «rimpatriati» (Decreto Minniti-Orlando, aprile 2017).
Di fatto un carcere – sia pure amministrativo e non penale e già questo è grave -, in cui dei migranti sono rinchiusi fino a 180 giorni, senza aver commesso alcun reato (Primo Decreto Salvini).
Confino/i
Sabato 11 gennaio, il collettivo triestino ‘NO BORDER NO CPR, che si occupa di migranti, ha organizzato una manifestazione davanti a questo edificio, col suo gran muro di cemento, i suoi reticolati e sbarre, duecento camere televisive. Non c’era molta gente, circa duecento persone. Ma è accaduto qualcosa di significativo.
Attraverso un microfono, alcuni hanno gridato molte volte un numero di telefono. Poco dopo, un cellulare ha squillato e, in successione, due ragazzi chiusi nel CPR hanno comunicato a viva voce con i manifestanti, denunciando le pessime condizioni di sopravvivenza in quello che è a tutti gli effetti, tranne che a quelli legali, un carcere.
Fra le denunce fatte dall’interno invisibile del carcere, c’era anche quella del comportamento della polizia che sorveglia.
Malgrado le possibili e forse anche probabili ritorsioni, è stato importante questo grido di solidarietà e d’informazione dal vivo, per far sapere ai detenuti che c’è anche chi è solidale. È necessario infatti non solo lottare contro ma anche costruire: costruire appunto legami di solidarietà con una spinta concreta, per quanto ancora esile, verso nuclei di socialità solidale.
Abbiamo saputo, anche dai giornali, che nella notte otto ragazzi erano riusciti a fuggire e che sei erano stati ripresi.
I campi in Bosnia, le polizie di confine, fra cui primeggia per scelleratezza quella croata, il CPR di Gradisca, e anche l’indifferenza o l’ostilità della maggioranza dei triestini, sono tutti elementi di una macchina confinaria di selezione razziale che non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo accettare.