Siamo ormai prossimi all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, e sempre più si ha l’impressione che la nostra democrazia si avvicini ad una delle sue fasi critiche. O meglio: la crisi permanente dell’assetto costituzionale italiano riemerge e si svela ogni volta che si avvicina uno snodo saliente.
L’elezione del Presidente della Repubblica è sicuramente uno di questi snodi rivelatori dello stato di salute reale delle nostre istituzioni. Soprattutto quando si presenta in prossimità delle elezioni politiche.
Il precedente del 2013
I precedenti confermano questi timori. Non sfuggirà quanto successe nel 2013. Allora, elezioni politiche ed elezione del nuovo Presidente caddero ravvicinate. E con un inatteso risultato tripolare uscito dai seggi, ogni equilibrio maggioritario per il Quirinale sbandò. Si bruciarono uno dietro l’altro Amato, Marini, Prodi (i famosi 101 franchi tiratori). Si dovette ricorrere al secondo mandato di Napolitano.
E proprio la rielezione di Napolitano, trovata in accordo tra Bersani e Berlusconi, aprì le porte al primo governo di “unità nazionale” a guida politica, quello di Enrico Letta, con Angelino Alfano (segretario del Popolo delle Libertà) vicepresidente del Consiglio. Governo di unità, nato per le riforme costituzionali, ma poi rapidamente naufragato nella propria maretta prima, e nel ciclone renziano poi.
Oggi la situazione è simile, anche se l’ingorgo istituzionale è a tempi invertiti: prima il Quirinale, poi le elezioni politiche (al massimo entro primavera 2023, se non prima). Una “congiunzione astrale” mai foriera di buoni auspici in Italia: perché il clima pre-elettorale accentua le divisioni, e l’elezione del Quirinale diventa una “prova generale” in cui testare intese per il futuro Governo (esattamente come successe con la rielezione di Napolitano nel 2013) e – se possibile – avvantaggiarsi tatticamente in vista del confronto elettorale.
Senza bipolarismo, il trionfo del machiavellismo
Ora, il rischio o la possibilità che l’elezione del Presidente della Repubblica serva a bruciare scenari politici, o a crearne di nuovi, in vista delle elezioni, non è affatto inferiore al 2013. Dunque, al “normale” tatticismo tipico della politica italiana, si assommerà l’esigenza di prefigurare gli equilibri che governeranno l’Italia dal 2023 al 2028, in una fase decisiva (PNRR, uscita dal Covid, enorme debito pubblico, inflazione…). Ce n’è abbastanza per aspettarci un mese di gennaio all’insegna dei più estremi giochi sottobanco.
Tutto questo riporta all’ordine del giorno il problema del machiavellismo come cifra di fondo della politica italiana (ne abbiamo già scritto qui). Questo “genio nazionale” degli italiani, che Nietzsche (in un frammento del 1887) descriveva come il più “libero” e “sottile” d’Europa, ovviamente si esalta ora che torna a tirare aria di proporzionale e cade la rigida ringhiera del maggioritario bipolare: esattamente quello che successe col tripolarismo del 2013 (per l’avvento dei M5S a fianco di destra e sinistra “tradizionali”), ma anche quello che potrebbe succedere nel 2022.
Infatti, non siamo mai stati così lontani dal bipolarismo come ora, negli ultimi 30 anni. Siamo retti da un governo Draghi che supera gli schieramenti bipartiti tradizionali (come nel 2013, con Monti prima e Letta dopo). Dobbiamo andare a votare, e la legge elettorale potrebbe cambiare in senso proporzionale (quella attuale ha troppi “buchi”, specie se applicata ad un Parlamento composto in futuro da soli 600 membri).
Si aggiunga che, mai come ora, i “gruppi misti” si sono gonfiati di parlamentari, e che molti eletti – anche tra gli appartenenti ai partiti tradizionali – sono alla disperata ricerca di un futuro politico, anche passando di casacca.
Insomma, siamo di fronte al “brodo di coltura” ideale per ogni manovra machiavellica, o anche trasformistica, a partire dall’elezione quirinalizia, per poi passare da lì alle “future alleanze”.
Mattarella e Draghi
Si attende a breve un segnale definitivo da Mattarella nel suo ultimo discorso di fine d’anno. Ma ormai è chiaro che il Presidente uscente non accetterà reincarichi. Avrebbe forse potuto farlo se si fosse almeno impostata la riforma costituzionale che esclude per sempre che il reincarico diventi una prassi. Ad ogni modo, non escludiamo del tutto che – in caso disperato – Mattarella finisca per non sottrarsi, come Napolitano nel 2013. Ma per ora, giustamente, sta fuori dai giochi.
Quanto a Draghi, nella sua conferenza stampa prenatalizia ha dato segnali molto chiari. Non ci si candida al Quirinale, e quindi non può rispondere direttamente alla domanda sul suo futuro. Ma – sempre nel gergo tattico della politica italiana – non negare equivale ad affermare. A maggior ragione se ci si proclama disponibili a “servire le istituzioni” e “fare il nonno”: il che equivale alla sua netta preferenza per il Colle.
Non a caso, quasi tutti i partiti – un secondo dopo – si sono catapultati a chiedergli di restare a Palazzo Chigi. «Per il bene del Governo», ovviamente. Ma, in realtà, con vari secondi fini.
Chi vuole Draghi e chi no
Draghi che resta al Governo assicura ancora un anno di legislatura alle forze che hanno meno speranze di vincere le prossime elezioni, e che temono una forte riduzione dei parlamentari. Quindi, sicuramente, il PD, le forze minori di sinistra e persino i M5S di Conte che, pur da nemici personali di Draghi, si affrettano a dichiarare che ritengono «necessaria una continuità dell’azione di governo, per non lasciare i cittadini e le istituzioni in condizioni di vacatio che comporterebbe seri problemi per tutti». Insomma, non amano Draghi per aver fatto fuori Conte, ma sono così preoccupati per gli italiani da preferire che la legislatura continui, ovviamente.
Ma anche a destra si chiede che Draghi resti (sempre, ovviamente, per il bene degli italiani). Lo ha chiesto Forza Italia, che mai come ora spera di poter essere ago della bilancia ed esprimere un futuro Presidente a sé vicino, come punto di equilibrio (assai improbabile Berlusconi, non improbabili altri nomi di centro moderato o liberale). Chiede che Draghi resti anche Salvini, forse sinceramente (meglio non votare subito se si rischia di essere superati dalla Meloni), forse obbligato (dalle sue ali interne filo-industriali). Solo la Meloni può permettersi un velo d’ironia, considerando la conferenza di Draghi non di fine anno, ma di “fine legislatura” (sottovaluta però che i parlamentari matureranno i contributi pensionistici solo tra sei mesi…).
Ma come può Draghi salire al Colle (col rischio di elezioni anticipate), se quasi tutti gli chiedono di non farlo?
Draghi al Colle: necessario e impossibile insieme
La verità è che Draghi non ha vere alternative: deve andare al Quirinale.
Se non lo facesse, vedrebbe la sua maggioranza, già assai litigiosa (si veda il ritardo di consegna della Finanziaria…), liquefarsi in un costante scontro di campagna elettorale lungo tutto il 2022. Cosa che renderebbe difficile il suo lavoro, ma anche un suo eventuale ritorno a Palazzo Chigi nella prossima legislatura (cosa possibile solo se ci sarà una nuova empasse, un pareggio elettorale). Insomma, sarebbe bruciato, in poco più di un anno.
Al tempo stesso, come abbiamo registrato sopra, ben pochi vogliono che Draghi lasci il Governo. Anche a destra, dove fiutano la possibilità di avere finalmente, per la prima volta nella storia, un Presidente della Repubblica davvero a loro vicino. Hanno i voti per sceglierselo, con quelli dei grandi elettori regionali. Figure istituzionali di destra, o di centro-centro (come Casini), hanno enormi chances. Perché rinunciare a questo vantaggio settennale, e ad un anno di legislatura (con pensione maturata), per correre ora su Draghi al Colle? Ecco lo scenario che oggi riteniamo più probabile, specie se si arriva al quinto scrutinio.
Il testacoda istituzionale con Draghi al Colle
A vantaggio di chi non vuole Draghi al Colle più alto c’è l’obiettiva difficoltà istituzionale che verrebbe a crearsi. Presidenza del Consiglio e Presidenza della Repubblica sono cariche – ovviamente – incompatibili tra loro. Un minuto dopo essere eletto al Quirinale, Draghi dovrebbe dimettersi da Presidente del Consiglio. E lo farebbe nelle sue proprie mani di neo-Presidente!
Di più: si troverebbe a fare consultazioni per scegliere e incaricare lui stesso il suo successore al Governo. Per tacere del fatto che, non avendo nominato un vicepresidente del Consiglio, non è ben chiaro chi dovrebbe assumere l’interim di Palazzo Chigi (il Paese non può mai stare senza Governo, almeno per gli affari correnti).
Se poi le dimissioni di Draghi determinassero una crisi di Governo irrisolvibile – che porta ad elezioni anticipate già nel 2022 – la sua immagine ne sarebbe subito offuscata (sembrerebbero colpa sua e della sua “ambizione” quirinalizia).
Anche tra i partiti scatterebbe la corsa a lasciare il cerino in mano ad altri: «se si va a votare, se si ferma Draghi proprio in piena pandemia e PNRR, la colpa è tua, non mia…». Chi perdesse quelle elezioni (i giallo-rossi, presumibilmente) si troverebbe molto ridimensionato, e quindi maldisposto verso Draghi presidente.
Per evitare le elezioni anticipate, l’unica soluzione alla crisi di Governo, in caso di salita di Draghi al Colle, non essendoci da tempo una maggioranza politica in Parlamento, sarebbe proseguire con lo schema dell’unità nazionale guidata da un tecnico (ragionevolmente, un “delfino” di Draghi: ad esempio, attuali ministri di spessore, come Giovannini, Cingolani o Colao). Ma sarebbe lo scenario di “semipresidenzialismo di fatto” che tanti costituzionalisti hanno già segnalato con preoccupazione: ossia, uno scenario dove a Governare è – nei fatti – il Presidente della Repubblica, attraverso un Presidente del Consiglio di propria scelta e fiducia. Qualcosa di più del “Governo del Presidente”: cosa già accaduta, ma con tutt’altro significato politico rispetto ad oggi, quando la china verso i presidenzialismi, in tutto il mondo, sembra preoccupante e inarrestabile.
Insomma, comunque la si giri e comunque vada a finire, la salita di Draghi al colle genera un bel “testacoda”, un guazzabuglio istituzionale che non abbiamo mai sperimentato, e che facilmente potrà essere evocato contro la sua candidatura al Colle.
Comunque vada qualcuno ne uscirà bruciato
Ecco dunque perché Draghi al Quirinale è necessario – per non bruciare l’ultima e più preziosa “riserva della Repubblica” – e insieme molto difficile, sia per motivi politici che per motivi istituzionali (e di comodo di tanti gruppi parlamentari). Se ne uscirà per forza, quindi, con qualcuno bruciato.
Potrebbe essere Draghi stesso, e sarebbe un disastro, verso l’opinione pubblica nazionale e assai di più verso quella internazionale: perderemmo in un attimo miliardi di credibilità, e di euro. Probabile che la sua sia una “bruciatura a fuoco lento”, lungo tutto il 2022, se resta al Governo: ma non per questo meno dolorosa.
Con Draghi al Colle, invece, a bruciarsi potrebbero essere una o più aree politiche, rimaste col “cerino in mano” della crisi di governo irrisolta, e della conseguente sconfitta elettorale.
Oppure, in caso di svolta “semipresidenzialista”, potrebbe uscirne bruciato il sogno di alcune forze politiche di ritornare ad un proporzionale pieno, ad una “Prima Repubblica” senza partiti, dove ogni accordo è possibile, e il trasformismo/machiavellismo/bizantinismo italiano può trionfare. In entrambi questi casi, a uscire sconfitta dall’elezione quirinalizia, sarebbe addirittura la Costituzione italiana del 1948, nella lettera o nello spirito.
Quale via d’uscita?
L’unico scenario di tipo “win-win” sarebbe quello di costruire le condizioni politiche perché Draghi resti a Palazzo Chigi non solo un anno, ma anche per i futuri cinque, cioè ancora pienamente valorizzato nella prossima legislatura, costruendogli già attorno una maggioranza politica che si presenti agli italiani apertamente, ed eleggendo al Colle una figura molto “moderata”, di equilibrio, non troppo a destra.
Ma questo richiederebbe una grande strategia e visione politica, con un accordo tra forze che oggi non appartengono allo stesso campo bipolare, e che solo una riforma elettorale ben definita – che oggi non c’è – renderebbe forse possibile. In sostanza, mancano le materie prime: ossia lungimiranza strategica, regole istituzionali riformate e chiare, e superiore attenzione all’interesse del Paese.
Insomma, l’impressione, via via che si avvicina, è che politicamente il 2022 rischi di somigliare sempre più al 2013. Speriamo di sbagliare, ovviamente.