Un referendum sulla Costituzione senza la Costituzione. Settimana dopo settimana, lungo la campagna elettorale questa impressione è diventata in chi scrive una valutazione, un giudizio che vuole essere registrato – prima del voto – senza subire l’influenza di quello che sarà il risultato.
Al via della campagna, quando tutti dichiaravano di voler confrontarsi sul “merito” della riforma approvata dal Parlamento, avevo sognato che, analizzando gli articoli modificati, riguardanti l’ordinamento delle istituzioni, ci si sforzasse da ogni parte di verificare il rapporto delle nuove norme con i principi e i valori della Costituzione. Ciò nel presupposto che la relazione tra tali principi e valori e l’organizzazione degli strumenti della vita pubblica è precisamente lo stesso che intercorre tra i fini della repubblica e gli strumenti più adatti a raggiungerli.
La rivincita dei secondi fini
L’andamento e la conclusione della campagna, sondaggi compresi, ha del tutto vanificato quel sogno perché sia i sostenitori del “sì” che quelli del “no” si sono comportati in modo da celebrare, in singolare unità d’intenti, quella che temevo potesse essere “la rivincita dei secondi fini”.
In effetti di questi si è parlato fino alla saturazione con un’impressionante convergenza degli errori di impostazione dei protagonisti.
Il Presidente del Consiglio ha scelto subito i toni demiurgici nel prefigurare una battaglia finale in cui il governo e lui stesso, come persona, si mettevano in gioco senza vie di fuga. O il “sì” o il caos: le variazioni sono state molte ma il tema non è mai cambiato. Così gradualmente sono affiorate le molte debolezze di un ragionamento politico che programmaticamente azzerava vicende e persone della storia per accreditare una rappresentazione comunque sproporzionata delle innovazioni introdotte nell’ordinamento.
Eppure, proprio il governo e le forze che lo sostengono avrebbero avuto tutto l’interesse a dimostrare che i processi di semplificazione, di sveltimento, di capacità decisionale – il cuore della riforma – avrebbero accelerato la traduzione in atti di governo dei capisaldi programmatici della Carta. Ad esempio, con il rilancio del pieno impiego con un programma non estemporaneo di interventi mirati ad uno sviluppo economico in funzione dello sviluppo sociale.
Perché il governo ha scelto di non esporsi su questo versante, evitando di agganciare esplicitamente al dettato della Costituzione (art. 3 e 4) le misure che pure dichiara di voler adottare per ridurre il peso di alcune disuguaglianze e per favorire la crescita delle occasioni di lavoro?
Un patriottismo… zoppo
Quanto al fronte del “no”, avrebbe avuto motivi sufficienti per dimostrare che la mancata attuazione di parti rilevanti della Carta non era da addebitare alle lungaggini procedurali – le famose “navette” – ma alla mancanza di volontà politica.
Probabilmente nella copiosa messe di provvedimenti di modifica delle strutture economico-sociali lungo gli anni dell’esperienza democratica avrebbe trovato le ragioni per confutare uno degli slogan dei fautori della riforma. Avrebbe cioè potuto dimostrare che il continuo e rapido avvicendarsi dei governi non aveva impedito di adottare provvedimenti incisivi e di grande impatto sociale come la riforma agraria, le varie riforme scolastiche, i programmi di sviluppo dell’occupazione e del reddito, le tutele del lavoro.
Spostare l’attenzione sul terreno dell’analisi storica avrebbe insomma consentito di fornire argomenti persuasivi a sostegno della tesi – l’unica a disposizione del “no” – per cui l’impianto in vigore dell’ordinamento pubblico sarebbe da preferire a quello faticosamente definito da una maggioranza parlamentare in cerca di convalida referendaria.
Ed anche qui l’interrogativo si pone sulle motivazioni di una scelta come quella descritta.
Certamente non si è trattato di quel «patriottismo costituzionale» al quale un analista accreditato come Antonio Polito attribuisce l’arroccamento dei «veterani» sulle forme istituzionali della Costituzione del 1948.
Diversa sarebbe la conclusione se a quel lontano testo ci si fosse richiamati considerandolo nella sua interezza, fino a qualificarlo – il sistema, non l’ordinamento – come «uno strumento di coesione nazionale».
La Costituzione strumentalizzata
In ogni caso il richiamo alla sintesi costituzionale impedisce l’uso strumentale dell’argomento. La Costituzione, quella che abbiamo, va sempre presa sul serio. Ed è significativo che proprio nel vivo del confronto referendario si siano riprodotte le antiche argomentazioni di coloro che, in fondo, alla Costituzione si sono sempre accostati con diffidenza.
È il caso di Ernesto Galli della Loggia che spiega così il fenomeno «bizzarramente composito» del fronte del “no” (quello che Renzi ha chiamato «accozzaglia»): «Ognuno (da Gasparri a Rodotà, a Vendola passando per Cirino Pomicino) difende la sua Costituzione, quella che gli è servita e che vorrebbe gli servisse ancora». Per concludere: «Che essa possa anche servire al futuro del paese nel suo complesso, su questo invece è forse doveroso nutrire un dubbio».
Ecco: il confronto referendario sarebbe servito solo a certificare che la Costituzione è inutile per il paese, in particolare per gli articoli dal 29 al 47 riguardanti i rapporti etico-sociali ritenuti di «ispirazione ipergarantista ma insieme statal-solidale dai toni simil-socialisti».
Ma della Costituzione nel suo impianto umanistico, del collegamento tra sovranità popolare e lavoro, non s’è neppure parlato; e ben può dirlo chi – come colui che scrive – ha seguito con particolare attenzione il dibattito augurandosi che qualcuno mettesse in chiaro il linkage tra contenuti della Carta e modalità della produzione normativa.
Proprio per questo, alla vigilia del voto, trovo necessario ribadire che il tema della Costituzione, della sua attualità e della sua traduzione in atti politici non può più essere omesso o dato per implicito. Comunque vadano le cose il 4 dicembre, quella sarà la prima pagina del dopo.