Do per conosciuti i risultati delle due elezioni regionali che hanno fatto registrare la vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna e del centrodestra in Calabria. Con un buon margine inatteso (otto punti) la prima, con largo margine previsto (venti punti) la seconda.
È noto come la prima, in particolare, avesse assunto una cospicua portata nazionale. A Salvini era riuscito di conferirle una tale connotazione e rilevanza. Tutta la sua campagna, all’insegna della massima politicizzazione e personalizzazione, a questo esattamente mirava.
Una strategia opposta a quella del presidente PD Bonaccini, che ha fatto leva sul carattere eminentemente regionale della contesa, concentrando il proprio messaggio sul buon governo locale e semmai marcando le distanze dagli schieramenti politici nazionali, a cominciare dal suo, PD e centrosinistra.
Di qui l’esito o comunque la sua interpretazione: il fallimento della spallata di Salvini a maggioranza e governo nazionale e il successo di Bonaccini, più che del centrosinistra.
Il ruolo delle Sardine
Decisivo e da rimarcare il dato della straordinaria affluenza al voto, doppio rispetto al precedente (singolarmente basso) di cinque anni orsono. A produrlo hanno concorso certamente il carico politico di cui si diceva e l’impegno profuso da entrambi i competitor e dalle liste a loro sostegno.
L’esame dei flussi attesta che un po’ tutti hanno portato al voto i propri potenziali elettori, ma che, comparativamente, lo hanno fatto soprattutto i sostenitori di Bonaccini, plausibilmente motivati dal proposito di sconfiggere l’offensiva di Salvini.
Di sicuro, un importante contributo al riguardo è venuto dalle Sardine, dalla loro mobilitazione di piazza, plausibilmente, rimotivando e portando alle urne una cospicua quota di elettori un tempo di centrosinistra che, da qualche anno, per varie ragioni, si erano allontanati.
Tra i commentatori si è discusso se, per paradosso, le Sardine, apertamente ostili a Salvini, non lo avessero aiutato a politicizzare la contesa. A posteriori possiamo concludere che, forse sì, esse, a differenza di Bonaccini e del PD, hanno contribuito alla suddetta politicizzazione, a fare delle elezioni una sorta di referendum pro o contro Salvini.
E tuttavia il saldo si è rivelato per loro e per lo stesso Bonaccini positivo. A testimonianza – ci torneremo su – che gli avversari si battono non dissimulando le differenze politiche, esibendo le proprie opzioni di campo e di valore, non solo, pragmaticamente, rivendicando la buona amministrazione.
Vincitori …
Quali, dunque, i vincitori e i vinti? Tra i vincitori, oltre a Bonaccini, il PD, tornato primo partito in Emilia-Romagna, dopo il sorpasso della Lega alle elezioni europee.
Zingaretti ne esce rafforzato. In caso di sconfitta, già si annunciavano tensioni interne al suo partito e persino richieste di dimissioni. Al contrario, egli può rivendicare il successo della sua strategia, quella che mirava e mira a fare del PD il perno di un nuovo e largo centrosinistra, politico e civico, quale competitor di una destra-centro altrimenti senza rivali.
Ripristinando il bipolarismo, come si conviene a una sana democrazia competitiva e dell’alternanza. Scommettendo sulla progressiva e finalmente inequivoca opzione di campo da parte dei 5 stelle quale alleato strategico del PD. Ben oltre un’occasionale collaborazione di governo. Un’opzione oggi in certo modo obbligata.
Nel centrodestra, si conferma l’ascesa di Fratelli d’Italia, alleata ma, in prospettiva, in competizione con Salvini. Al quale, a urne chiuse, la Meloni non ha risparmiato un significativo appunto critico circa modi e toni della campagna elettorale.
… e vinti
Tra gli sconfitti, due in particolare. In primis e soprattutto i 5 stelle, precipitati sotto il 5%, nella regione che fu un po’ la sua culla (il “vaffa day” di Grillo a Bologna).
Effetto di una crisi generale – identitaria prima che elettorale e di leadership – che mette a rischio la sua stessa sorte. Oltre che dell’autolesionistica decisione di correre da soli nelle regioni. Decisione assunta dai (pochi) iscritti alla piattaforma Rousseau. A riprova che le decisioni politiche sagge e responsabili devono essere prese da un gruppo dirigente di qualità e non rimesse (deresponsabilizzandosi) agli anonimi e opachi voleri espressi via web.
Un profilo, non il solo, che – è da sperare – dovrebbe essere messo a tema negli annunciati Stati generali del M5S, chiamati a una vera e propria rifondazione di esso. Dei suoi programmi, della sua organizzazione, della sua leadership (uno, nessuno, centomila?), delle sue scelte di campo, in definitiva della sua complessiva e indefinita identità.
L’altro sicuro sconfitto è FI, sceso sotto il 3%. Un altro passo verso la dissoluzione, che prevedibilmente sortirà effetti anche sul piano parlamentare, ove già si sono manifestati movimenti. Con singoli e gruppi che, alla bisogna, potrebbero passare alla maggioranza, magari attraverso Italia viva di Renzi. Il quale, a sua volta, vede ridursi il suo spazio d’azione/interdizione.
Consapevole dei propri limiti, Renzi non ha partecipato alle elezioni emiliane. Ma erano annunciati i suoi ennesimi distinguo nel caso di una sconfitta di PD e centrosinistra. Conoscendone l’indole guerrigliera li farà, ma disponendo di un’oggettiva contrazione della sua capacità negoziale.
Governo: due problemi importanti
Ancora, una parola sul Governo. Tuttora fragile, sia chiaro, e che dovrebbe operare un cambio di passo, dandosi davvero un orizzonte di legislatura. Può darsi che lo squilibrio nei rapporti di forza elettorale tra i due principali partner di maggioranza costringano l’esecutivo ad adeguamenti nei programmi e nella squadra.
Al momento premier e governo l’hanno scampata. È fallita la spallata di Salvini. E tuttavia restano due problemi di prima grandezza che suggeriscono ai presunti vincitori di non abbassare la guardia, di non sottovalutare insidie e ostacoli. Il primo sono le convulsioni dei 5 stelle che potrebbero riverberarsi sul Governo. Specie se essi dovessero spaccarsi o illudersi di potersi rigenerare tornando all’antico, quale movimento antipolitico o comunque privo di cultura di governo.
Secondo, e soprattutto: guai a montarsi la testa da parte di maggioranza e governo. I risultati della Calabria (ma, a ben vedere, anche quelli emiliano-romagnoli, con una Lega al 30%) e quelli delle elezioni regionali precedenti tutte vinte dal centrodestra sono lì a dimostrare che quella è, al momento, la maggioranza nel paese e che dunque la partita è tutta aperta. Anzi, in salita per il centrosinistra.
Affinché ritorni la politica
Il tempo dovrebbe esserci, salvo incidenti. Mi spiego: il referendum costituzionale confermativo del taglio di 345 parlamentari (il cui esito è scontato) si farà, poi si richiederà qualche mese per ridefinire i collegi o varare una nuova legge elettorale. Il Quirinale ha fatto sapere che, giustamente, non scioglierà le Camere senza che prima entri in vigore la riforma che riduce a 600 i membri di esse.
Se anche cadesse il governo Conte, come potrebbe Mattarella autorizzare che si vada al voto prima, eleggendo così un parlamento formato dagli attuali mille parlamentari che, di lì a poco, sarebbero delegittimati con la riduzione a 600?
Dunque la legislatura si allunga e, considerata la volubilità degli elettori, tutto è possibile in un arco di tempo non così ristretto. Ripeto: la partita è davvero aperta. Ma questa volta sarà tutta e giustamente politica. I competitor non potranno occultare le proprie distinte visioni (oggi si dicono narrazioni), limitandosi a rivendicare la buona amministrazione.
Peraltro è facile in Emilia e non è solo né soprattutto merito di chi pro tempore la guida (lo faceva anche Formigoni in Lombardia), ma, assai di più, di una tradizione e di un habitus da ascrivere soprattutto alla cultura civica di quelle terre. L’Italia è lunga e variegata, non coincide con l’Emilia.
Tra gli sconfitti in Emilia: Camillo Ruini