«Reinsediamento» (resettlement). Parola divenuta purtroppo familiare nella gestione dell’enorme flusso di migrazioni forzate a cui stiamo assistendo. Il «reinsediamento» è divenuto uno tra i maggiori impegni dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), che lo scorso 13 giugno ha pubblicato il suo rapporto «Projected Global Resettlement Needs 2017» (qui nell’originale inglese). Negli ultimi dieci anni l’UNHCR ha presentato a 30 paesi la richiesta di reinsediamento per oltre 1 milione di rifugiati, e il numero di persone che necessitano oggi di reinsediamento – ovvero, persone che non sono in grado di fare ritorno alla propria casa (per vari motivi), o non possono accedere all’integrazione nei paesi che li accolgono – supera di gran lunga le opportunità di reinsediamento offerte da un qualsiasi paese. Il Rapporto stima che il numero di richieste toccherà 1.19 milioni nel 2017, con un incremento del 72 per cento rispetto alle necessità di 691mila persone calcolate nel 2014, prima del programma di reinsediamento dei rifugiati siriani. Nel 2017, si stima che le richieste per i rifugiati siriani saranno circa il 40 per cento del totale, seguite dai cittadini del Sudan (11 per cento), dell’Afghanistan (10 per cento) e della Repubblica Democratica del Congo (9 per cento). Il reinsediamento è una misura che si rivela efficace, in particolare per i sopravvissuti a violenze o torture (il 24 per cento delle richieste nel 2015, ovvero quattro volte tanto rispetto al 2005), e le donne e le bambine a rischio di abuso (circa il 12 per cento). «Ci rendiamo conto che il reinsediamento sta arrivando a un nuovo livello e che maggiori possibilità per il reinsediamento sono un mezzo efficace per condividere la responsabilità nella protezione dei rifugiati», ha dichiarato l’Alto Commissario per i Rifugiati Filippo Grandi. «Ma è necessario fare molto di più per tenere il passo con il crescente numero di persone gravemente vulnerabili».