L’articolo è stato scritto ieri poche ore prima che la crisi di governo precipitasse al Senato. Abbiamo scelto di pubblicarlo in ogni caso perché, nonostante la previsione errata sul futuro del governo Draghi, permette di comprendere alcune dinamiche di quanto accaduto nelle ultime settimane.
Dopo 4 mesi di guerra in Ucraina, la politica italiana si è riaccesa. Non parliamo, ovviamente, della grande politica, di quella estera in particolare, che indubbiamente Draghi in questi mesi ha saputo interpretare degnamente e, in alcune iniziative, anche da protagonista. Una cosa non scontata per il nostro Paese, specie negli ultimi anni.
Parliamo – purtroppo – della piccola politica di casa nostra, quella che porta a discutere per giorni di divisioni nei partiti, di accordi in vista delle elezioni, di lotte tra leader, di insidie alle Camere, il cui reale seguito democratico ed elettorale è tutto da dimostrare.
Elezioni e sondaggi: il ritorno dello scontro politico
I fatti da commentare, in questo ambito, sono abbastanza chiari e delimitati: la scissione tra Conte e Di Maio, nel Movimento 5 Stelle, o meglio in ciò che ne resta; la conseguente vanificazione di due anni di “campo largo” in salsa giallo-rossa, a lungo predicato dal segretario PD Letta; infine, la reale possibilità della destra e del centro-destra di presentarsi uniti, o meno, alle prossime elezioni e a governare il Paese.
Già, perché a riaccendere il motore della “piccola politica” italiana non è stata la fine della guerra, della pandemia, della crisi inflazionistica o di altri temi “schiaccianti” per priorità, che hanno sostenuto l’opportunità dell’unità nazionale in questi mesi, attorno a Draghi.
La “piccola politica” si è riaccesa per due motivi molto più banali.
Primo, le elezioni politiche si avvicinano (marzo 2023, al più tardi) e, quindi, occorre capire a chi andrà la guida del Paese dopo Draghi.
Secondo, i sondaggi e i test amministrativi per alcune forze politiche (M5S e Lega in particolare) non sono stati buoni, e quindi occorre “farsi vedere”.
Purtroppo, con tutta la buona volontà, non c’è altro.
Il ridicolo caso del sociologo e del comico
Vogliamo una controprova di questo nulla?
Pochi giorni fa, Draghi ha dovuto interrompere la partecipazione dell’Italia ad un importante summit internazionale e correre a Roma. Per quale grave motivo politico interno o internazionale?
Per rispondere a un “si dice” contro Conte, attribuitogli da un noto sociologo, riportato da un noto comico, non fondato su alcuna dichiarazione pubblica e nemmeno da un piccolo post, un messaggino o un qualsiasi WhatsApp a firma del Premier…
Un “si dice” che, però, ha rischiato di far saltare la maggioranza che sostiene il suo governo. Basta questo esempio per capire la pochezza essenziale e costituzionale in cui versa il dibattito partitico italiano.
Draghi rischia?
Ma il Governo Draghi è davvero a rischio? Personalmente, ritengo di no, fino all’autunno, almeno. Fino al 24 settembre 2022 – giorno fatidico in cui scattano le pensioni dei Parlamentari – le probabilità di elezioni anticipate sono bassissime. E Draghi, avvisando tutti –con l’avvallo morale di Mattarella – che dopo lui ci sono solo nuove elezioni, si è assicurato sulla vita fino a quella data.
Dopo settembre, c’è comunque un bilancio da approvare, e ancora tanto Pnrr da spendere.
Conte non ha i numeri, almeno oggi, per far saltare il Governo. E, onestamente, nemmeno il coraggio. Ma imposterà da qui in avanti un lungo braccio di ferro con costanti distinguo e punzecchiature, cercando di portare a casa in vista della Finanziaria 2023 – che bisognerà pur approvare, magari con un voto solo “tecnico” – più visibilità possibile e quanti più provvedimenti cari al suo (presunto) elettorato.
L’esito di questa “guerriglia” politica non è scontato: qualche alleato potrebbe non tollerarla; Conte potrebbe sfilarsi dal Governo per concedersi qualche mese di opposizione “purificante” in vista delle elezioni; e lo stesso Draghi non è uno da subire ricatti, e potrebbe prima o poi salire al Colle per lasciare ai provocatori il cerino in mano. «Se il Governo non può lavorare, non resto».
Può darsi vinca la responsabilità e la mediazione, di fronte ad un inverno tra i più difficili che ci attende, oppure che il banco salti, anche al di là della volontà degli attori.
Una cosa è certa: i mesi migliori e più efficaci del governo Draghi sono ormai alle spalle. Quelli che restano saranno una dura e faticosa lotta quotidiana. Per volontà soprattutto di Conte.
Conte 2. La vendetta
La strategia di Conte, oggi, sembra quindi essere preventiva, più che risolutiva. Conte, cioè, sta alzando il livello di tensione, per arrivare all’autunno più in sintonia col suo elettorato populista. Per salvare l’esistenza elettorale stessa del “suo” partito. Per dimostrare al “suo” elettorato (ex) pentastellato, assai sensibile ai richiami antisistema, che lui non è “draghiano” e non sostiene serenamente questo governo “dei soliti poteri forti” (frase che in realtà non significa nulla, ma piace tanto all’elettorato populista, mattonatore, complottista e anche no vax).
Il presunto “moderato” Conte gioca in realtà la partita che gli torna più utile, quella in salsa antisistema. Non deve scandalizzarci: purtroppo – come scriviamo spesso – la democrazia italiana da tempo è fagocitata dai machiavellismi da facile consenso.
Conte, oggi, esprime forse la punta più estrema di questa crisi democratica. Che si manifesta proprio nella totale assenza di visione a lungo termine, di un’idea sostenibile di società, e si esprime al meglio nella ricerca del consenso per il consenso, day by day, nelle politiche dei “110%”, dei bonus e delle regalie, fuori da ogni disegno di vera progettualità sociale.
Per tacere del fatto che Conte, col suo governo numero due, personalmente, fu sostituito da Draghi a Palazzo Chigi: e questo non lo ha mai perdonato all’ex Governatore della Banca d’Italia.
C’è dunque anche una dose di ripicca personale in questo suo tessere contro il governo. Conte due, la vendetta.
Ma la crisi è più che tattica e personale
Certo, alle spalle delle tensioni personali che in questi giorni hanno investito il Governo, c’è anche di più degli scontri individualistici e dell’inizio delle scaramucce pre-elettorali: in effetti, questi sono piuttosto sintomi, epifenomeni di malesseri e questioni più profonde in atto nel nostro sistema politico.
I populismi gialli e verdi sembrano ormai in fase calante. Questo è il primo fatto strutturale evidente.
Quando si alza tanto l’asticella contro il “sistema”, è poi difficile non restarne vittime, per il solo fatto di frequentarlo, a Roma, il “sistema”.
Ecco perché l’Italia brucia ormai una leadership “populista” o “populisteggiante” ogni 5 anni circa. E non solo l’Italia. Chiedere a Boris Johnson, ad esempio.
Difficile dichiarare chiuso, dunque, il capitolo populista. Sono solo finiti – o in calo – alcuni dei suoi primi attori. Ma sempre altri se ne affacciano. Ora è il turno della Meloni. Poi, magari, tra qualche anno, quando anche lei sarà inevitabilmente bruciata dai suoi stessi toni alti, altri ne arriveranno: e ormai, tra qualche tempo, una leadership social/influencer potrebbe essere abbastanza matura per palesarsi.
Ma l’emergere forte del “populismo nero” della Meloni destabilizza il centro-destra che, con l’attuale legge elettorale, se trova l’accordo al suo interno, avrebbe facilmente una maggioranza in Parlamento e per un nuovo governo. Ma Forza Italia e l’ala “moderata” della Lega digeriranno anche questa leadership relativa meloniana, pur di stare ancora al governo?
La crisi – come ripetiamo da tempo – è strutturale, perché sono i meccanismi di fondo della nostra democrazia – legge elettorale, costituzione parlamentarista – a non consentire più di creare reali maggioranze, aggregazioni omogenee per possibili governi, scelte chiare per gli elettori.
Il risultato è che ognuno corre per sé, e poi “dopo il voto si vedrà”. E in questo modo il sistema è esposto alle tensioni di visibilità di ogni singolo partito.
Finiti i populismi? Scommessa difficile
Certo, altro dato strutturale, qualcuno ha scommesso sul fatto che sia tornata nell’elettore italiano la nostalgia di una politica più serena e seria. È la scommessa di Di Maio, ad esempio, nel rompere col Conte ormai troppo “antisistema”. Ma questa di Di Maio, oggettivamente, appare una scommessa piuttosto azzardata e ottimista.
Chi, come il PD, ha voluto leggere le ultime elezioni amministrative come un ritorno ai partiti solidi e seri, responsabili, ha sbagliato probabilmente prospettiva. Il voto delle città è ormai completamente diverso da quello delle elezioni politiche. Alle elezioni politiche votano anche le “periferie” provinciali, le aree interne, le zone del nostro Paese che si sentono più abbandonate dal “sistema”.
Queste zone rispondono ancora ai populismi e al voto di protesta, probabilmente, a differenza dei più acculturati e inclusivi centri urbani, il cui voto quindi risponde a criteri di “responsabilità” che non ritroveremo – purtroppo – nelle urne politiche a marzo 2023.
La vera scommessa di Conte e di Draghi
Può darsi, allora, che Conte abbia fatto davvero la scommessa giusta, cercando di riaccreditarsi come leader populista in vista delle prossime elezioni politiche (anche se, onestamente, ha tutto meno che il fisico del ruolo). Un Conte interprete di una specie di populismo “elegante” e in cravatta? Può essere. C’è chi l’ha già fatto.
Ma forse la sua vera scommessa è un’altra. Se rompe con la maggioranza Draghi, potrà liberarsi le mani. Ogni scenario diviene per lui possibile dopo il voto: e più avrà massimizzato il risultato, più sarà corteggiabile.
Persino lo scenario di un governo “nero-giallo-verde” diventa possibile: ossia un governo dei populismi, per nulla morti. La Meloni, infatti, potrà certamente trovare con Lega e Forza Italia, utilitaristicamente, un accordo elettorale per correre insieme, se la legge non cambia e restano i collegi uninominali. Tuttavia, non è detto che possa dopo trovare con loro una reale sintesi di governo, e un accordo su un premier di destra “potabile”, quando sarà partito di maggioranza relativa.
Ma il contraltare di un accordo dei “populismi” sarebbe un equilibrio trovato da Forza Italia, Toti, Renzi, Calenda, col supporto del “campo largo” (ciò che ne resta) di PD, Di Maio e qualcos’altro, per affrontare con responsabilità la guerra, la crisi del gas, e portare avanti il Pnrr. Un “campo dei responsabili”, come oggi, in fondo. Il cui leader naturale – ovviamente – sarebbe un Draghi 2. Tutto dipenderebbe dai numeri alle Camere. E quindi dal voto ma –s oprattutto – dall’accordo che il Centro-Destra attuale troverà sulla spartizione dei collegi uninominali (che vincerà quasi tutti).
Se il terzetto di Centrodestra non tiene alla prova della formazione di un governo proprio, se il “campo dei responsabili” trovasse nell’implosione di quell’accordo i numeri parlamentari… Allora la “vendetta” potrebbe venire dalla parte che non ci aspettiamo. Mario Draghi 2, la vendetta. Con tanti saluti all’operazione di rilancio populista, iniziata da Conte in questi giorni.