Difficile prevedere con esattezza quali conseguenze avrà sullo scacchiere mondiale l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Anche per la Santa Sede e per la sua azione diplomatica si aprono scenari da sorvegliare con attenzione, a cominciare proprio dalle relazioni col nuovo presidente degli Stati Uniti.
Vedere che cosa farà
Sulle grandi questioni internazionali Obama – almeno nel suo ultimo mandato – si era mostrato piuttosto attento alle posizioni vaticane. Grazie all’opera di mediazione di John Kerry, la Santa Sede ha raggiunto con la presidenza degli Stati Uniti una serie di buone convergenze che si spera ovviamente di mantenere.
Clinton, tra i due, era il candidato più conosciuto e prevedibile (lo avevamo scritto qui su Settimana News). Trump, col quale non ci sono ancora stati contatti ufficiali, è invece da scoprire come politico e presidente. La linea diplomatica della Santa Sede è quella espressa pubblicamente da Francesco, anche nella recente intervista al quotidiano El País. «Vedere che cosa succede. Non mi piace anticipare gli eventi né giudicare le persone in anticipo. (…) Vedremo quello che fa e allora valuteremo. Sempre le cose concrete. (…) E dalle cose concrete traiamo le conseguenze».
Si attende dunque di vedere cosa farà Trump, come declinerà il «Make America Great Again», nella consapevolezza che tra le dichiarazioni della campagna elettorale e i comportamenti dei presidenti eletti corre sempre una certa distanza, e del fatto che Trump deve ora mandare agli elettori il messaggio che non tradirà le sue promesse. Il rispetto della volontà popolare che si è espressa nelle elezioni è indiscusso, e la Santa Sede collabora ovunque con chi sta al governo per il bene della Chiesa locale e di tutta la società, mantenendo aperti rapporti e dialogo.
Certo, i primi passi del nuovo presidente fanno pensare e preoccupano. La restrizione degli ingressi da sette paesi musulmani, o il muro al confine col Messico – come sottolineava il cardinal Turkson – sono segnali non buoni lanciati verso altri paesi tentati dalla chiusura delle frontiere. Trump è un protestante vicino alla corrente della «teologia della prosperità», che esprime posizioni di fatto antitetiche a quelle più volte ribadite da Francesco (con grande forza in Evangelii gaudium). Ma anche in questo caso non si anticipano giudizi, così come sulla questione ambientale, che è un tema sensibile per papa Bergoglio. L’annunciata riforma dell’Obamacare (immediatamente «congelata» da Trump) non sarebbe in sé un problema, essendovi risvolti problematici contro i quali si è sollevato l’episcopato statunitense. Si dovrà valutare in quale direzione andrà tale riforma e soprattutto quale attenzione avrà per i più poveri. I segnali non sono univoci. Anche la sospensione dei fondi federali a favore delle ONG che praticano l’aborto non si può ritenere espressione di una convinzione personale, ripetendo quanto è stato fatto da tutti gli ultimi presidenti repubblicani.
Restano molto chiare le poche parole del messaggio inviato da Francesco al nuovo presidente nel giorno del suo insediamento: «Prego affinché le sue decisioni siano guidate dai ricchi valori spirituali ed etici che hanno plasmato la storia del popolo americano e l’impegno della nazione per l’avanzamento della dignità umana e della libertà in tutto il mondo. (…) Sotto la sua guida possa la statura dell’America continuare a misurarsi soprattutto per la sua preoccupazione per i poveri, gli esclusi e i bisognosi che come Lazzaro attendono di fronte alla nostra porta».
Siria e Medio Oriente
Da tempo la Santa Sede ritiene che non sia bene isolare la Russia. Per questo mantiene aperti con Mosca rapporti e dialogo su diverse questioni. La Russia gioca un ruolo importante in alcune delle situazioni più calde in MO (anzitutto in Siria) e non potrà che avere un ruolo anche nella ricerca delle soluzioni. Quanto all’avvicinamento tra Trump e Putin, dopo le dichiarazioni della campagna elettorale il neopresidente pare divenuto più cauto (come si è visto già durante l’incontro col primo ministro britannico Theresa May).
Sulla Siria si è tenuta di recente una conferenza in Kazakistan (Astana, 23-24 gennaio), senza grandi passi avanti e senza l’Arabia Saudita al tavolo delle trattative. Si attende la prossima conferenza, prevista a Ginevra, sotto l’egida dell’ONU, dall’8 febbraio. Lì si vedrà se qualcosa è cambiato. Se ci saranno anche gli Stati Uniti; e se l’Europa sarà coinvolta o rimarrà fuori, come è stato finora. Data l’ostilità di Putin sarà difficile vedere l’Unione Europea rappresentata al tavolo. La Turchia rimane poi una grande incognita per il suo atteggiamento piuttosto ambiguo (a cominciare dall’alleanza con gli sciiti dell’Iran, sulla quale nessuno fa troppo affidamento).
Una serie di paesi dell’Est Europa, come Polonia, Lituania, Estonia e Lettonia, sono molto diffidenti verso la Russia. La Santa Sede sa che gli episcopati locali lo sono altrettanto. In Siria, al contrario, tra i leader religiosi – non solo cristiani – è diffuso un certo sentimento filorusso, perché l’intervento militare di Mosca è stato un segno di speranza in una situazione di disperazione generalizzata. Da parte dei leader delle minoranze religiose non è mai venuto meno il sostegno ad Assad (e non verrà meno adesso, essendo ormai chiaro che Assad rimarrà della partita). Intervenuta al suo fianco, la Russia ha offerto ai siriani un’alternativa all’Isis o a uno dei tanti gruppi di combattenti presenti sul territorio, una parte dei quali affiliati ad Al-Qaeda.
Il papa ha voluto lanciare un messaggio di vicinanza e attenzione alla tragica situazione delle comunità cristiane in Siria con la nomina a cardinale del nunzio Mario Zenari, scegliendo contestualmente di lasciarlo sul posto, a Damasco.
Sul versante della Cina
Dopo tanti anni, Trump ha rimesso in discussione la «One China Policy» degli Stati Uniti. E questo deve aver fatto suonare più di un campanello di allarme a Pechino. Da parte cinese le reazioni sono state finora caute. Ma la diplomazia in questi giorni è al lavoro nel tentativo di riassestare il terreno delle relazioni.
La Cina intende mantenere una posizione forte sullo scacchiere mondiale. Se dovesse improvvisamente sentirsi più vulnerabile potrebbe guardare alla Santa Sede come a un partner interessante per almeno due ragioni. Anzitutto, per il fatto – penoso anche per la Cina, che fa dell’«armonia» uno dei capisaldi del suo pensiero – di avere in casa due comunità cattoliche divise e – di fatto – in conflitto. In secondo luogo, per il prestigio internazionale che deriverebbe al governo del più grande paese comunista da un accordo con la Santa Sede. I contatti sono divenuti da qualche tempo regolari, spesso vertono su casi concreti. Nell’intervista a El País, lo stesso Francesco ha confermato l’esistenza di «una commissione che sta lavorando da anni con la Cina e che si riunisce ogni tre mesi, una volta a Roma e una volta a Pechino. E c’è molto dialogo con la Cina». Anche in questo caso, la diplomazia della Santa Sede è anzitutto impegnata a ottenere e salvaguardare le condizioni di libertà necessarie per la vita e la missione della Chiesa nel paese.
Quanto al IX Congresso dei rappresentanti cattolici in Cina (la massima assise del cattolicesimo «ufficiale», che si è chiusa lo scorso 29 dicembre e di cui Francesco Scisci aveva reso conto per noi qui), l’ideale per la Santa Sede sarebbe stato che non si fosse celebrato. Si sta cercando ora di capire bene che cosa sia successo. L’impressione fondata è quella di una certa presa di distanza dai toni aggressivi del passato (basti pensare al precedente congresso del 2010), e di un’attenzione reale a evitare provocazioni. Non si è tenuta, ad esempio, alcuna concelebrazione pubblica dei vescovi (legittimi e illegittimi), che avrebbe messo in grande difficoltà Roma.
Segnali a cui prestare attenzione
Il tema che sembra oggi preoccupare di più è la chiusura neo-nazionalista (o populista), che sta crescendo in diverse parti del mondo. Nella storia, quando questa spinta è prevalsa, ha preannunciato di solito periodi difficili e poco luminosi. Si guarda per questo con attenzione ai prossimi appuntamenti elettorali che si terranno in Europa, Francia e Germania in particolare. Francesco concludeva così l’intervista citata: «Certo, le crisi provocano delle paure, delle allerte. Per me, l’esempio più tipico dei populismi europei è quello tedesco del 1933. Dopo Hindenburg, la crisi del Trenta, la Germania è in frantumi, cerca di rialzarsi, cerca la sua identità, cerca un leader, qualcuno che gli ridia la sua identità e c’è un ragazzetto di nome Adolf Hitler che dice: “Io posso, io posso”. E tutta la Germania vota Hitler. Hitler non rubò il potere, fu votato dal suo popolo, e poi distrusse il suo popolo. Questo è il pericolo. In tempi di crisi, non funziona il discernimento e per me rappresenta un punto di riferimento continuo. Cerchiamo un salvatore che ci restituisca la nostra identità, difendiamoci con muri, con fili spinati, con qualsiasi cosa dagli altri popoli che possono toglierci la nostra identità. E questo è molto grave. Per questo cerco sempre di dire: dialogate tra voi, dialogate tra voi».
Il dialogo ecumenico e interreligioso ha la sua parte in questa diplomazia per la ricerca della pace. Il papa ne è convinto, come mostrano i passi concreti da lui mossi in tutte le direzioni: verso Oriente, verso le Chiese riformate (vedi il viaggio a Lund, per l’apertura del Giubileo della Riforma), sia verso le istituzioni islamiche (non è di poco conto la visita in Vaticano, lo scorso maggio, dell’imam di al-Azhar). A livello mondiale si registra una drammatica mancanza di leader veri, autorevoli. C’è un vuoto di personalità e di guida diffuso, non solo a livello politico, ma anche culturale, economico ecc. Per questo la figura di Francesco e il suo stile di governo – aperto e autorevole, attento sempre alla dignità della persona, in particolare dei più fragili – affascina e lo si considera un riferimento mondiale.
La posta in gioco è la pace
La diplomazia vaticana condivide con i suoi omologhi un approccio realistico e non sceglie i suoi interlocutori. E tuttavia non rinuncia, in un gioco di sponda non sempre facile con gli episcopati e comunità locali, a richiamare i valori umani e spirituali di riferimento. Quando il primo agosto del 1917 papa Benedetto XV scriveva il suo messaggio ai capi dei popoli belligeranti, qualificando la guerra in atto come «inutile strage» sapeva di rimanere solo e di correre il rischio di essere mal compreso anche dai cattolici delle potenze in guerra.
A distanza in un secolo si capisce meglio la posta in gioco. È ancora una volta la pace. Anche senza i caratteri «totali» delle guerre del Novecento – papa Francesco parla di «guerra a pezzi» – lo scontro tra Nord e Sud, fra gli inclusi e gli esclusi della globalizzazione, ha avviato un cambiamento di rotta guidato dal rilancio della sovranità nazionale e da personaggi politici di tipo populista. Interpretare questo passaggio non per escludere, ma per legare, per una nuova redistribuzione del reddito e una sostenibilità sociale e ambientale, è la vera sfida. L’Europa potrebbe avere un ruolo importante. E non mancherà il contributo di Francesco.