Elena Granata, stimata docente di urbanistica del Politecnico di Milano, tra le «teste pensanti» del Comitato organizzatore della Settimana sociale dei cattolici che si tiene a Trieste dal 3 al 7 luglio sul tema «Al cuore della democrazia», nell’illustrare il documento base, ha garantito che non si avrà esitazione nel pronunciare parole chiare e, se necessario, scomode.
La crisi: tra Trieste e Roma
Mi sia consentita una doppia considerazione. La prima, un po’ puntuta: sarebbe una novità di rilievo. Tradizionalmente i consessi cattolici «istituzionali» si segnalano per la propensione a «diplomatizzare» l’approccio ai problemi, ad arrotondare i giudizi, talvolta a rimuovere i contrasti in nome di un certo irenismo. Ma voglio credere all’impegno assunto dalla Granata. Qualche apprezzabile voce in tal senso – parresia, tensione critico-profetica – si è già levata da parte dell’episcopato italiano e del suo presidente, il cardinale Zuppi.
Seconda considerazione: il mio pensiero è corso alle concrete e controverse riforme costituzionali in agenda, che manifestamente minano taluni capisaldi della nostra democrazia costituzionale. Specificamente: la sua forma parlamentare, l’unità e la coesione nazionale e sociale, gli organi terzi di garanzia, la divisione dei poteri, l’indipendenza della magistratura.
Si converrà che non è poco. A dispetto dell’apparenza, non sono questioni astratte riservate agli addetti ai lavori, ma investono beni e diritti fondamentali concernenti la vita di persone e comunità.
Con una metafora non originale ma efficace, mi esprimerei così: sarei sorpreso se, tematizzando la crisi della democrazia, a Trieste si esorcizzasse la mucca nel corridoio di casa nostra. Appunto il pacchetto delle riforme che ridisegnano le nostre istituzioni nei rami alti e nelle autonomie territoriali.
Due precedenti
Con questo sentimento, con questa preoccupazione, ho scorso documento e atti preparatori della Settimana triestina. Più volte, in questa vigilia, si sono evocati due remoti ma pertinenti precedenti: il Codice di Camaldoli del 1943 e la Settimana sociale del 1945 di Firenze, vedi caso, sul tema «Costituzione e Costituente». Sono andato a rileggere quei materiali. Una lettura istruttiva e densa di implicazioni circa il presente. Mi siano consentite alcune citazioni.
Nella relazione conclusiva di Camaldoli, monsignor Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo e vera anima dell’incontro, così si esprimeva: «Di fronte al problema della Costituente i cattolici italiani prendono posizione francamente e definitivamente per la democrazia come regime più consentaneo al pensiero e allo spirito cristiano». Non era scontato nel 1943, ma si metteva a frutto il celebre radiomessaggio di Pio XII del 1942 che, ancorché cautamente, apriva alla democrazia. Significativa un’ulteriore sottolineatura: «Una sana democrazia sarà contraria a uno Stato il cui potere sia senza freni e senza limiti … il bene comune non è l’interesse della maggioranza». Evidentemente il passato pesava e pesa.
Ancora più calzante, anche in ragione del tema (la Costituzione), la Settimana di Firenze alla vigilia dell’Assemblea costituente ove i cattolici misero a fuoco il loro contributo all’assise. Nel presentarne gli atti, Vittorino Veronese, segretario generale dell’ICAS (Istituto Cattolico Attività Sociali), marcando le distanze dai «tiepidi, distratti o pavidi», prospettava il dovere della «resistenza alle dottrine dell’assolutismo di Stato», che, nel tempo, possono assumere forme diverse, magari dissimulate.
Tra i relatori di Firenze, poi autorevole costituente, Egidio Tosato «reclamava sicure garanzie alla Costituzione perché non venga lasciata all’arbitrio di maggioranze spregiudicate». Mi verrebbe da dire «de te fabula narratur…».
So bene che la materia costituzionale si intreccia con la politica e che, tra i cattolici, il pluralismo delle opinioni e degli orientamenti è regola acquisita. In verità, ne era consapevole anche allora Sergio Paronetto, attore-protagonista del Codice di Camaldoli. Conosco, notava alla vigilia, il rischio di «dividere uomini e dottrine del nostro mondo». Ma ciò non lo indusse a rinunciare alla sfida, a sottrarsi al dovere di elaborare un punto di vista meditato e condiviso in tema di Costituzione.
La battaglia di Dossetti
Merita infine rammentare, tra il 1994 e il 1995, l’ultima battaglia del vecchio monaco-costituente Giuseppe Dossetti a difesa della Costituzione a fronte di alterazioni della Carta non molto dissimili da quelle avanzate oggi, un mix di bonapartismo e secessione, rispettivamente patrocinati dalla coppia Berlusconi-Bossi. Per inciso: con un episcopato mediamente compiacente.
Dossetti, che amava parlar chiaro, non aveva esitazioni a sostenere che fossero in gioco principi etico-civili impegnativi per la coscienza cristiana. Del Dossetti di quella stagione è opportuno segnalare un’altra acuta intuizione: egli avvertiva che nel referendum costituzionale che si stagliava all’orizzonte, allora come oggi, il «quesito implicito» avrebbe avuto inesorabilmente il sopravvento sul «quesito esplicito» e formale.
Ovvero non tanto un giudizio sul merito della riforma – troppo complessa per la pubblica opinione – ma la ipersemplificata e fuorviante domanda seguente: «Sei tu d’accordo con chi ti propone la riforma», ti fidi, meglio, ti affidi a lui (o a lei)? Come fu puntualmente a suo tempo con Berlusconi, poi con Renzi, ora con Meloni. Tanto più oggi con riguardo al «premierato assoluto», la «madre di tutte le riforme» (ipse dixit), con la quale Meloni mira a tenere a battesimo la nuova Repubblica.
Nella sostanza un plebiscito che inauguri e suggelli una democrazia plebiscitaria. Trasmettendo il messaggio neppure tanto subliminale dell’archiviazione della Repubblica disegnata dai «padri» costituenti (con quelli di parte cattolica tra i più attivi e qualificati protagonisti) per fare posto a una Repubblica intestata a una «madre» erede di una cultura estranea a quelle radici costituzionali. Questa la posta in gioco.
- Pubblicato sul sito della rivista Appunti di cultura e politica il 27 giugno 2024