La fiducia è una cosa seria, ammiccava uno slogan pubblicitario degli anni Sessanta quando la Penisola era nel boom e tutti, compresa l’opposizione, avevano fiducia che le cose sarebbero andate meglio. Lo slogan gradualmente scomparve con la scomparsa della fiducia degli italiani nel loro futuro, con le proteste degli anni Settanta, l’inflazione galoppante, l’arrivo del terrorismo rosso e nero. Prima c’era da fidarsi di tutto, anche di un Carosello, dopo no. Quindi il marchio del formaggino che “voleva dire fiducia” cambiò modo di presentarsi.
Al di là delle questioni particolari, le attuali controversie da giallo su questo o quel ministro, che non crede ad agenti o 007, forse andrebbero inquadrate nel problema più generale di cosa sia la fiducia, tema a cui il filosofo Francis Fukuyama ha dedicato forse il suo libro più bello, Trust. La fiducia è cosa seria e appunto cambia con le condizioni generali e particolari. Non è un sasso che non si sposta, e anche un sasso poi si muove, cambia con l’urto del vento, la pioggia, il caldo e il freddo.
Dittatori sofisticati e maniaci del controllo vennero tutti traditi. Mao Zedong nel 1971 fu ingannato dal suo erede designato, Lin Biao, che gli organizzò un golpe sotto il naso. Poi alla morte venne imbrogliato da Hua Guofeng a cui aveva affidato la continuità comunista e invece voltò la Cina verso le riforme di Deng Xiaoping. Iosif Stalin non fu da meno, raggirato da tutti i suoi dopo il funerale. E prima, per timore di inganni, decapitò il partito e l’esercito più volte creando più danni di una eventuale rivoluzione. Adolf Hitler non ebbe miglior sorte, scampando per miracolo a un attentato organizzato dai generali a lui più vicini. Del resto, era accaduto già a Benito Mussolini, defenestrato e arrestato dai suoi camerati, poi liberato ma praticamente prigioniero dai nazisti.
Cioè la fiducia è soggetta a condizioni politiche generali. Se il capo, specie se accentratore, comincia a collezionare errori, e la percezione di “infallibilità” crolla, la fiducia viene a cadere.
Forse è quello che sta succedendo in questi giorni con il governo di Giorgia Meloni, e le reazioni di crescente sfiducia di membri del governo verso pezzi di apparato statale avvitano e accelerano il processo.
In casi di sfiducia possono esserci solo due modi per recuperarla: imbroccare gradualmente delle politiche che hanno successo, e quindi rinsaldano la “fiducia” politica, e affidarsi agli apparati. La seconda ricetta è controintuitiva ma reale: per avere fiducia bisogna prima darla, darla a nuove persone, a persone lontane da sé. Forse dopo qualcosa si raccoglie. Di certo a chiudersi nella sfiducia si moltiplica ogni tensione.
Di certo queste ricette sono difficili per Meloni che, si dice, parla con un manipolo di persone, frequentate da anni o da una vita, come madre, sorella o cognato. Del resto, ha subito (come le stessa racconta) il tradimento del padre da bambina. Ma se non esce da questa sua psicologia non esce dalla situazione.
Il problema non è il tradimento di questo o quell’agente. È la non incisività della sua politica. In Europa ha sbagliato tutto, schierandosi caparbiamente con forze di destra uscite sconfitte dai giochi. In America rischia di fare il bis, visto che sta puntando su Donald Trump, mentre potrebbe essere eletta Kamala Harris.
In Italia ha sfilacciato il rapporto con i suoi maggiori sostenitori, il gruppo editoriale della famiglia Berlusconi, che pure l’aveva sostenuta all’inizio. Meloni ha voluto un confronto duro con l’Unione europea quando il gruppo sa che l’orizzonte europeo è indispensabile. Ha consumato un rapporto inizialmente non ostile con la Chiesa, con proposte di riforme, come l’autonomia differenziata, che toccano direttamente i programmi e le proiezioni future della Santa Sede.
Né ha raccolto appoggi alternativi nuovi e sostanziali che rimpiazzassero quello che ha perso. Anzi, pur spostandosi a destra, verso la Lega di Matteo Salvini, non ha avuto sostegni veri né da lui né da altri fuori d’Italia, in ben altre faccende affaccendati.
Infine c’è il progressivo intiepidimento sulla politica estera. Ha fatto un difficile viaggio in Cina che ha scontentato tutti. Il ministro degli Esteri e della Difesa hanno raffreddato l’appoggio all’Ucraina proprio mentre altri si rinvigorivano. Anche su Israele ha strizzato l’occhio alla “causa palestinese” in un modo apparso una sponda pelosa ai terroristi di Hamas.
Può darsi che nel merito delle singole politiche le posizioni del governo Meloni siano tutte giuste. Ma non è questo il punto.
La politica non è prova di una verità matematica, è raccolta di consenso interno ed esterno su direzioni di marcia. Questo è mancato e sta sempre più venendo meno.
Facile allora che in un Paese dove il dibattito politico è scivolato progressivamente nel pettegolezzo sullo scandalo vero o presunto di tizio o di caio, dove il senso dello stato è stato incrinato da tanti che per tanto tempo si portavano in viaggio amici o figlioli, questo si traduca in voci, inchieste giudiziarie o giornalistiche condotte con maggiore o minore rigore etico.
Allora chi può fidarsi di chi? Il suo Stato non si fida di Meloni, ma in realtà per recuperare fiducia, Meloni dovrebbe fidarsi dello Stato e forse mettere in ordine certi suoi affari di famiglia. Non è chiaro a questo punto se c’è tempo. La vittoria possibile e forse oggi probabile di Harris cambierà molte cose per l’Italia. Intanto incalzano i conti della finanziaria, le pressioni dell’Unione europea sulle riforme, le guerre che in Ucraina, Gaza cambieranno di ritmo con il nuovo presidente statunitense.
Così, sfiduciata che il governo possa cambiare sul serio, che può fare la gente comune con lo stipendio da mantenere? Si mette in sicurezza, tira i remi in barca. Meloni licenzi la sorella, il cognato, li veda a casa insieme con la figlia e la madre, si prenda gente nuova, cambi registro su tutti i punti dolenti e forse, solo forse, avrà una chance.
- Pubblicato su Formiche il 15/09/2024 (qui). In collaborazione con l’Appia Institute.