C’è una parola che io percepisco presente – anche se non figura esplicitamente – nel documento preparatorio del sinodo sulla sinodalità (Instrumentum laboris; cf. qui) reso noto dal Vaticano: la parola pluralismo. Su questa vorrei soffermarmi, perché – nonostante tante riserve espresse dai cosiddetti progressisti e tante contrarietà urlate dai cosiddetti conservatori – spiega quale sia la base su cui si possa oggi costruire un nuovo dialogo tra credenti, non credenti, diversamente credenti.
Il documento appare rilanciare infatti il pluralismo contro ogni monismo, a partire proprio da quello «cattolico romano», rendendo possibile una cultura che rivitalizzi, nelle società civili, nel mondo, una vera possibilità democratica. Questo è il punto che vorrei mettere a fuoco: la ricaduta sulla coesistenza mondiale dei popoli e degli individui dell’emergere di una Chiesa sinodale.
Nella crisi della democrazia
Chiesa e politica non sono due argomenti necessariamente collegati, ma, opportunamente, lo divengono, se guardiamo alla cultura in cui ogni politica necessariamente affonda le sue radici. Oggi spira sulle culture un vento forte: quello della paura. Troppo spesso scelte e opzioni politiche discendono dalla paura. Quando il vento sbatte, ci si precipita a chiudere gli stipiti, i vetri e le persiane: perché la paura dei danni porta alla chiusura. Nell’ora in cui il vento mette tremore, tutto si chiude, tutti si chiudono in sé stessi.
Non è un bel tempo, dunque, questo, per la democrazia, che, invece, chiede i giri d’aria, le finestre spalancate, gli scambi e le disponibilità per stare dentro ai conflitti culturali, con le parole, senza violenza fisica, mai: sì, la democrazia non può prescindere dai conflitti. Questi non vanno negati o coperti, bensì sempre consapevolmente attraversati.
L’Instrumentum laboris segna, dunque, il lancio di un approccio pluralista – verso il mondo – da parte di una Chiesa che è stata certamente autoritaria, verticista – ossia «universale e romana» – e che fa ancora molta fatica ad essere altrimenti. Interessante è notare che, chi rigetta il documento, oggi dica che la Chiesa è «cattolica e apostolica», non sinodale. Io invece, da laico osservatore «esterno», affermo che il tratto più realistico della Chiesa dal Medio Evo non è stato essere «cattolica e apostolica» – né sinodale – bensì «romana», cioè «assoluta». Perché?
La svolta «romana»
Come tutti sappiamo, dai tempi di Costantino, è stato l’imperatore a presiedere i grandi concili ecclesiali: il papa era una figura laterale, a volte persino assente o rappresentata da un emissario. Il primato spettava all’imperatore e quindi al potere temporale rispetto a quello spirituale. Sebbene sia ovviamente impossibile datare i cambiamenti, come se emergessero da un giorno ben preciso, possiamo dire che la svolta «romana» si è realizzata proprio all’inizio del secondo millennio della cristianità, con Gregorio VII, ed è durata fino al Concilio Vaticano I.
Questa svolta verticista, assolutista, «universale e romana» è perfettamente descritta dal Dictatus Papae di Gregorio VII, la cui lettura può essere raccomandata a tutti, non tanto per il carattere imperiale che attribuisce alla figura del papa, quanto per l’intrinseca polemica che contiene nei confronti della preesistente forma sinodale.
Nel testo del Dictatus Papae – 27 punti di assoluto rilievo – il sinodo viene citato due volte, ma per limitarne i poteri. Al primo punto in questione, decisivo, troviamo che «la Chiesa romana è l’unica fondata dal Signore». Si noti: romana, non cattolica e apostolica. Al punto 16 si legge poi, a riguardo dei poteri del papa: «Senza sua disposizione nessun sinodo può essere detto universale». Da ciò si può evincere, dunque, che prima di allora la figura del papa non fosse così.
Ancor più evidente è il senso di quanto prescritto dal punto 25: «Egli può deporre e reintegrare i vescovi senza la convocazione di un sinodo». Ciò sembra scritto per sovvertire la vecchia forma sinodale e trasformarla definitivamente in apicale, cioè «romana». Conclusione breve: la Chiesa aveva nel suo principio una struttura sinodale, superata da quella verticista imperiale e quindi da quella apicale romana.
Perché Gregorio VII abbia voluto abolire, ad esempio, ogni tolleranza per il sacerdozio di uomini sposati, come sino ad allora era regolarmente accaduto, io non lo so, ma penso che quella sia stata la scelta della sacralizzazione della figura del prete, la base di una Chiesa solo clericale – separata dai laici – da controllare, dall’alto. È solo un esempio, questo: una scelta, per me oggi al suo capolinea storico (insieme al sistema dei seminari), ma mi rendo ben conto che il dato vada ora valutato al cospetto della tradizione – quindi discusso attentamente nella Chiesa sinodale –, non certo smontato da un atto autoritario, benché di segno opposto.
Obbedire a Dio, obbedire alla Chiesa
Sia la fase imperiale sia quella romana avranno pur risposto ad esigenze del tempo. Ma vengono i dubbi leggendo la perentorietà del punto 22, sempre del Dictatus Papae: «La Chiesa romana non ha mai errato». Se si è capovolto il paradigma – passando dalla collegialità degli apostoli/vescovi all’autorità dell’imperatore romano e quindi a quella del vescovo di Roma – forse non si è sbagliato, ma certamente anche la Chiesa ha dovuto cambiare idea.
Certo, è troppo facile «giudicare» il passato, con tutte le sue contraddizioni. Ma oggi, più che giudicare, è importante capire, pensando al presente in funzione del futuro. Forse a suo tempo serviva Costantino; forse al suo tempo Gregorio VII. Ricordarsi oggi della precedente forma sinodale aiuta a pensare al futuro, indagando nei motivi delle origini.
Dico che aveva capito molto bene il paradigma romano Yves Congar, criticandolo, quando scriveva: «obbedire a Dio significava obbedire alla Chiesa, il che significa obbedire al papa, e viceversa». Semplice ed efficace: è la «mistica» dell’obbedienza, romana. Mentre l’altro paradigma, quello ecumenico perfettamente sintetizzato da Hans Küng era: «Dio, Gesù, Apostoli, Vescovi, Chiesa», ove gli apostoli-vescovi sono il fondamento della Chiesa, ogni vescovo è successore degli apostoli, anche di Pietro, e il vescovo di Roma è il primus inter pares.
Nel modello romano, Pietro/papa è divenuto il fondamento della Chiesa, col solo vescovo di Roma successore di Pietro, non primus inter pares, bensì detentore della plenitudo potestatis. Il compimento è avvenuto con Innocenzo III, che trasformò il papa da vicario di Pietro in Vicario di Cristo. La molteplicità – pluralismo – del cristianesimo cattolico è finita allora: al suo posto restava l’uniformità romana.
Questo serve alla Chiesa per il mondo!
Naturalmente non siamo oggi all’anno zero della riforma, tanto è vero che Giovanni Paolo II − con i suoi mea culpa − ha già magistralmente smontato il Dictatus Papae e il suo assunto fondamentale circa la Chiesa che non ha mai sbagliato. Il «paradigma romano» descritto da Hans Küng è durato sino al Vaticano I.
Il Vaticano II è tornato alla collegialità episcopale, istituendo il sinodo dei vescovi e rinunciando – con Paolo VI – al Triregno, la Tiara papale formata da tre corone simboleggianti il triplice potere del Papa: padre dei re, rettore del mondo, vicario di Cristo. Mutamenti enormi – questi – ancora da capire sino in fondo. Tanto che Francesco la sera dell’elezione ha potuto definirsi il vescovo di Roma e non il Papa, perché appunto c’è stato un Concilio di mezzo. Eppure, ha sorpreso molti: una sorpresa, di per sé, sorprendente.
Il Concilio deve essere ancora attuato. Ma per essere attuato deve poter procedere nel solco tracciato. Nello stesso solco c’è ora questo documento preparatorio. Per me la sua novità sta nel fatto che non si elabora a Roma un nuovo schema universale – di nuovo «romano», sia pure di segno diverso – e quindi valido per tutta la Chiesa nel mondo, nello stesso identico modo. Ora, per la prima volta, si prospetta, a mio avviso, la raccolta della potenzialità che sale dal basso per governare unitariamente e tenere insieme le naturali diversità del pluralismo cattolico. È quanto oggi serve alla Chiesa? Secondo alcuni questo sarebbe il prodromo del suo disfacimento. Mentre io – per quanto possa contare il mio parere – ritengo che sì, proprio questo serve alla Chiesa per il mondo!
Se il sinodo intendesse imporre un nuovo sistema di vertice, allora fallirebbe la sfida contemporanea del pluralismo. Ciò che è indispensabile in Amazzonia, può essere forse utile anche in Germania, ma molto probabilmente non potrebbe essere minimamente accettato in Polonia.
Il potere messo a servizio
La visione plurale dell’Instrumentum laboris io la colgo in alcune domande, non evidentemente nelle risposte che, appunto, non ci sono ancora. Soprattutto ho notato il seguente passaggio: «In che modo va esercitato il servizio dell’unità affidato al Vescovo di Roma quando istanze locali dovessero assumere orientamenti tra loro difformi? Quali spazi vi sono per una varietà di orientamenti tra regioni diverse?». Gli spazi dunque ci sono, sono previsti: quali? Sino a che punto?
È possibile vedere qui – io auspico – la fine del «dogmatismo romano», quello che ha imposto in tutto il mondo una medesima formula e una medesima risposta, ma senza ricorrere ad un nuovo dogmatismo. Il papa diverrebbe così il garante di una unità in grado di rispettare le diversità in un contesto molto ampio di compatibilità.
Il documento ancora fa capire che una Chiesa sinodale prevede ovunque la necessità di camminare insieme, nella impossibilità di escludere qualcuno, specie i semplici, i poveri, gli ultimi, i discriminati. In diverse parti del mondo il passo degli ultimi è ben diverso. Infatti, diversi sono i contesti, diversi gli sviluppi, diverse le culture. Ho letto, ad esempio, battute salaci sul passo del documento in cui si parla di poligamia. Mi chiedo: chi ha fatto le battute è mai stato in Africa?
Ecco, infine, quanto serve, per me, anche alla democrazia: la democrazia può essere ovunque, ma senza essere uguale a sé stessa in ogni parte del mondo. Per creare un ordine multipolare non serve una nuova Yalta tra quattro nuovi grandi della Terra, bensì la speranza del riconoscimento plurale della democrazia, purché con alcune certezze di base.
Se la Chiesa è arrivata a riconoscere certi diritti umani dopo averli a lungo osteggiati, oggi è chiamata a difenderli. Perché sono in grave pericolo: chi altrimenti? La sua cultura – quella evangelica – aiuta a capire che, tra popoli e individui, si può e si deve camminare insieme, sebbene con passi diversi. Lo si può fare solo se tutti i poteri si abbassano e si mettono al servizio. Non certo se si innalzano autoritariamente sui piedistalli dei populismi.
Questo articolo come molti altri, dimostra che il Concilio vaticano II non è per niente stato recepito, ne attuato! Finchè si continuerà ad identificare la chiesa con il magistero non si cambierà nulla! Il Concilio invece insegna, in via generale ma fondamentalmente urgente, che è Il popolo di Dio, è la chiesa, e dovrebbe essere oggi protagonista della salvezza. Ad ognuno di noi è stata data la dignità regale, profetica e sacerdotale di Cristo. Questo di fatto è stato dimenticato, emarginato dal sentire comune, sostituito da un’erronea prassi nella quale solo alcune figure ministeriali, che hanno nel tempo acquisito un ruolo quasi insostituibile, primario, esclusivo. E’ tempo di cambiare questa situazione. L’unico potere che importa è quello del “Servizio”!
Giordano Frosini in un bellissimo libricino edito da EDB nel 2014 – in anni in cui non si dibatteva di queste tematiche – dal titolo “Una chiesa di tutti. Sinodalità, partecipazione e corresponsabilità” scrisse: ” pur non essendo sinonimi, sinodalità e democrazia sono fra loro profondamente collegate, perché la sinodalità per potersi sviluppare in pieno ha bisogno certamente di un’atmosfera culturale che è o fortemente democratica o le si è avvicina molto” (p. 155). Proseguiva poi affermando (p. 163) che la Chiesa, in forza del sacramente del battesimo, è una super-democrazia. Pertanto tanti dibattiti sulla sinodalità a mio parere sono viziati da una mancata comprensione della sostanziale uguaglianza di tutti i fedeli che sono nella Chiesa. La sinodalità dovrebbe – me lo auguro – portare ad una nuova comprensione di ciò che è la Chiesa e, invece, si fa fatica a mettersi in una necessaria e sana meta-noia.
Ma allora bisogna essere consequenziali.
Se la democrazia è propria della Chiesa bisogna applicarla.
Applicarla seriamente non a chiacchiere.
Si deve votare.
Per eleggere il parroco, il vescovo e, perché no, il papa.
Chi vuole candidarsi raccoglie le firme, prepara un programma, si fa la sua bella campagna elettorale e poi attende il responso delle urne.
Tutti i battezzati, certificato e documento d’identità alla mano, si recano in parrocchia dove viene allestito il seggio.
Poi vinca il migliore.
Questa situazione sarebbe un incubo, in quanto il numero dei cattolici solamente nominali supera di molto il numero di coloro che frequentano la liturgia regolarmente e/o sono coinvolti attivamente nella vita delle nostre comunità.
Ero sarcastico.
Mi scuso per non essere stato chiaro.
Allora facciamo votare soltanto chi va a messa almeno cinque volte all’anno.
Tanto per chiarire anche questo è sarcasmo.
Capivo che era sarcastico ma lo scenario risveglia in me veramente tante paure
Argomentazioni chiare e molto ben esposte.
Io rimango persuaso che non siano condivisibili proprio per i motivi esposti dall’Autore: un pluralismo male inteso sarebbe l’inizio della dissoluzione.
Faccio degli esempi.
Un prete donna ordinata in Germania viene in vacanza a Rimini e chiede di celebrare una messa in una chiesa parrocchiale.
Il parroco, in Italia le ordinazioni sono riservate ai maschi, va in crisi e interpella il vescovo il quale, a sua volta, interpella Roma che risponde: “arrangiatevi voi, c’è il pluralismo”.
Una coppia omosessuale sposata in Olanda viene richiesta da amici Polacchi di far da padrino e padrino di battesimo per un bambino nato da GPA.
Il parroco polacco, senza interpellare il vescovo, si rifiuta categoricamente di accettare i padrini e propone ai genitori (adottivi?) una cerimonia privata.
Insomma, a mio parere, bisogna stare molto attenti.
Molto.
I problemi che lei espone si sono già verificati nella Comunione Anglicana, e hanno portato prima a decenni di “impaired communion” e giurisdizioni che si sovrapponevano con vescovi volanti e diocesi missionarie di Chiese locali in altro paesi, e infine alla dissoluzione in corso della Comunione.
Secondo me bisogna che entrambe le parti facciano indietro: da una parte, i contrari ad eventuali cambiamenti devono calmarsi e lasciare che si discuta di queste cose senza evocare scismi ed eresie; i favorevoli, per contro, devono accettare il fatto che certe cose non necessariamente vanno fatte e cambiamenti radicali possono ferire tanta gente e disintegrare la Chiesa.