Stato-Regioni

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Il virus ha indubbiamente messo alla prova l’assetto istituzionale della Repubblica, costituita – -come recita la nostra Costituzione – dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Tra Stato e Regioni si sono creati momenti di ottima collaborazione, ma anche – soprattutto nelle ultime settimane – incomprensioni e forti tensioni.

Come, e se, “chiudere tutto”; la gestione sanitaria del virus; il problema degli approvvigionamenti internazionali di tute e mascherine; ora, come riaprire… Tutti temi su cui tra Stato e Regioni, e anche tra Regione e Regione, si sono verificati incomprensioni e scontri. Ora, persino ricorsi a TAR e Consulta.

Abbiamo visto presidenti di Regione magnificare i propri “modelli” rispetto alle direttive nazionali; oppure, accusarsi reciprocamente di non avere fatto abbastanza per contenere i movimenti interregionali; addirittura, qualcuno è arrivato a minacciare la chiusura di inesistenti “frontiere” regionali.

Una malattia antica

Ancora una volta il virus risveglia malattie antiche. Non è da oggi che si discute in Italia, tra molte tensioni, degli equilibri tra Stato centrale e Regioni. Tra 2017 e 2019 si era aperto (a partire da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) un dibattito difficilissimo sull’autonomia differenziata: ed è significativo che nessun governo, né quello a componente leghista né quello a componente democratica, sia riuscito a portare il processo realmente vicino alla concretizzazione. Perché un reale consenso nazionale, tra e dentro le forze politiche, ma anche nel sindacato e tra le altre parti sociali, non si è mai creato.

Le radici di queste tensioni permanenti sono da ricercare in un regionalismo poco definito fin dalla Costituzione del 1948. Frutto di un compromesso (non tra i meglio riusciti) tra la cultura cattolica che, sturzianamente, attribuiva una valenza democratica essenziale alle autonomie e ai governi locali, e le culture laico-liberale e socialcomunista, più nettamente centraliste (la seconda, però, funzionalmente interessata a esperienze di autonomia nelle “regioni rosse”).

Non a caso, le Regioni non furono attivate per oltre vent’anni, fino a quando le si ritenne – in pieno clima del’ 68 – probabilmente utili all’equilibrio politico e alla coesione sociale di un paese attraversato da forti tensioni sociali e che non rispondeva più pienamente alla democrazia bloccata, a Roma, dagli equilibri internazionali.

L’art. 117 – nella sua revisione del 2001, come nel testo originario del 1948 – si affida ad un elenco di competenze, che non può che generare contenzioso, tanto più che la Regione ha da sempre una competenza legislativa (che la differenzia nettamente dagli enti locali) da esercitare nei limiti dei principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato. Con in più la complessità, nell’attuale assetto costituzionale, di materie esclusive statali, materie concorrenti e materie regionali (tutte le rimanenti), con una potestà regolamentare regionale, quindi attuativa, estesa anche alle materie concorrenti. E, su tutto, l’ulteriore complessità di cinque ragioni a statuto speciale, per ognuna delle quali il regionalismo è una cosa diversa.

Mettiamoci così nei panni di chi dovesse oggi approvare, o anche sottoporre a un vaglio di costituzionalità, uno qualsiasi dei decreti emessi dal Governo nazionale o dalle Regioni per l’emergenza Covid: secondo il vigente Titolo V, le norme per affrontare il virus devono essere fatte dallo Stato per gli aspetti che concernono ordine pubblico e sicurezza, la previdenza sociale (la cassa integrazione, ad esempio) e le norme generali su come far procedere l’istruzione; ma le misure antivirus inerenti aspetti quali il commercio con l’estero, la tutela e sicurezza del lavoro, l’istruzione (i calendari scolastici, ad esempio), il sostegno ai settori produttivi, i porti, aeroporti e trasporti, oltre naturalmente a protezione civile e tutela della salute – essendo tutte materie concorrenti – devono vedere interventi regolamentari regionali nell’ambito di leggi regionali, a loro volta da assumersi solo all’interno della determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato (ma per le regioni a statuto speciale e le province autonome la faccenda sarebbe ulteriormente diversa).

Problemi irrisolti

Si capisce al volo come, per interventi fortemente “interdisciplinari” e sistemici, come quelli richiesti dalla pandemia e dalla crisi socio-economica conseguente, questo modello segmentato non può reggere. Può affidarsi solo ad una più che leale collaborazione e voglia di capirsi tra Stato e Regioni, che metta al primo posto la risoluzione dei problemi rispetto alle prerogative. Ma nel momento in cui vi fosse – come è successo – diversità di vedute per garantire la salute pubblica; oppure quando ci si tornasse a contrapporre politicamente tra partiti – e sta arrivando anche questo momento – è evidente che le Regioni, in base ai loro “colori”, rischiano di essere coinvolte nello scontro sui “modelli”, sulle scelte da assumere. È esattamente quello che sta succedendo.

Emerge allora ancora una volta il possibile crinale che la pandemia Covid può costituire per il sistema italiano, eternamente irrisolto: grande opportunità per affrontare i problemi, o definitiva crisi (o  – quanto meno – conferma di stagnazione).

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Anche per il regionalismo. Perché – come a tratti annunciato da autorevolissimi tecnici, da sindacati medici, e persino dal vicesegretario del Pd nazionale Andrea Orlando – c’è già chi mette in discussione non tanto l’operato di singole regioni, quanto la tenuta di un modello che possa prevedere 20 approcci diversi, quando l’intero Paese è in ballo unitariamente.

Non c’è dubbio che i bisogni di un territorio si valutino meglio da un centro decisionale vicino. Ma è altrettanto indubbio che il rischio di frammentare le risposte, anche in modo contraddittorio, è elevatissimo nel nostro modello costituzionale, specie ora che c’è da coordinarsi per “riaprire” il Paese. In più, le sempre predominanti esigenze di “consenso democratico” portano a usare i (veri o presunti) modelli regionali come altrettante clave, o grimaldelli, per dimostrare la maggiore o minore capacità di governo delle forze politiche, in base ai “colori” delle Regioni.

Se si imbocca questa via, non se ne esce più. Non è adesso il momento –ora ci si può affidare solo a lealtà reciproca e buon senso – ma presto verrà l’esigenza di rimettere a tema tutto l’impianto delle autonomie regionali. L’alternativa, potrebbe essere la stagnazione dei conflitti, delle recriminazioni reciproche, degli scarichi di responsabilità. Su un Paese in ginocchio.

In Italia le identità regionali sono ancora fortissime, dopo 160 anni di unità nazionale, e a volte sembra riaccendersi la nostalgia di quando la penisola era un coacervo di Stati regionali. La “retrotopia” può essere una malattia subdola e spiazzante.

La capacità di gestire e, se possibile, anche riformare il regionalismo italiano, con sguardo alto, al futuro, misurerà la febbre alle nostre classi dirigenti: se hanno il fisico degli statisti chiamati ad affrontare le incompiute della nostra Costituzione, o se saranno trascinati nel gorgo dei modelli Stato/Regioni contrapposti, per fare polemica e cercare consenso quotidiano a livello locale, in vista della prossima rielezione. In questo secondo caso, la crisi per il Paese rischia di essere ancora più amara e profonda.

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