Il piccolo Timor Est ha festeggiato il 30 agosto scorso i 20 anni della sua indipendenza, conquistata dopo una lunga serie di conflitti, di tragedie e di massacri. Fino al 1975 era conosciuto come Timor Portoghese, di cui era colonia fin dal XVII secolo.
Il 28 novembre del 1975 era stata proclamata unilateralmente l’indipendenza da parte delle fazioni filo-comuniste che avevano occupato il potere. Ma la presenza di un governo comunista nel suo arcipelago indusse l’Indonesia, nel dicembre 1975, a invadere il territorio, dichiarandolo sua XXVII provincia, con il nome di Timor Timor.
Il 30 agosto 1999, con un referendum organizzato dalle Nazioni Unite, gli abitanti optarono a grandissima maggioranza per l’indipendenza, anche se divenne a tutti gli effetti uno stato indipendente solo il 20 maggio 2002.
Il paese ha una superficie di circa 15 mila kmq e una popolazione di un milione di abitanti. Si estende nella zona orientale dell’isola; l’altra metà, la zona occidentale fa parte dell’Indonesia.
Il 97% della popolazione è di religione cattolica ed è distribuita in tre diocesi direttamente soggette alla Santa Sede: quella di Dili, quella di Baucau e quella di Maliana.
La Chiesa può contare su una quarantina di parrocchie, su oltre un centinaio di preti e su quasi 300 suore e gestisce 176 istituti scolastici e una sessantina di opere di beneficienza.
Timor Est, assieme alle Filippine, è l’unico paese a maggioranza cattolica del continente asiatico.
Economicamente, è un paese molto povero, ma dal 2008 sta registrando una rapida crescita in seguito alla scoperta e allo sfruttamento di parecchie riserve di petrolio e al flusso costante di investimenti sia interni che esteri.
L’opinionista Luke Hunt ha raccontato all’agenzia asiatica Ucanews (28 agosto 2019) la storia di violenze e di massacri che hanno caratterizzato il breve travagliato percorso che ha condotto Timor Est all’indipendenza.
Le pretese dell’Indonesia
Timor Est è un paese forgiato dalla violenza – scrive Hunt –. I trecento anni di colonialismo portoghese furono segnati da risse tribali; le lotte interne erano una tradizione che avrebbe minato gli sforzi per formare un fronte unito contro l’occupazione indonesiana negli ultimi decenni del secolo corso.
Isolato e impoverito, la sua esigua popolazione di appena 650.000 abitanti conobbe la mano pesante del presidente indonesiano Suharto subito dopo che Lisbona aveva salutato la vecchia colonia nel 1975 con la promessa, non mantenuta, di indire un referendum sull’autodeterminazione.
Almeno 120.000 persone morirono a causa della carestia e dei conflitti nei primi quattro anni di annessione da parte dell’Indonesia; la minima resistenza fu compromessa dalle dispute interne, così che ogni idea di indipendenza divenne un sogno lontano.
La situazione cambiò nel 1991 con il massacro di circa 250 persone favorevoli all’indipendenza durante un funerale nel cimitero di Santa Cruz. Questo episodio si trasformò in un grido di battaglia, unificando le forze un tempo divise tra clan e tribù, guidate dal leader carismatico Xanana Gusmão.
Decenni di violenza culminarono in un’ultima resistenza alla fine del 1999. Suharto fu spodestato, travolto da una crisi finanziaria e da un nuovo governo sostenuto dalla comunità internazionale e invitato a risolvere il problema una volta per tutte, chiamando il paese ad esprimere un chiaro voto sull’autodeterminazione per il 30 agosto. La partecipazione fu del 98,5%. Cinque giorni dopo le Nazioni Unite annunciarono che il 78,5% aveva scelto l’indipendenza.
Le milizie pro-Giakarta si ribellarono e il loro leader, Enrico Guterres, attraverso la radio, invitò a eliminare i sostenitori dell’indipendenza. La risposta all’appello fu brutale. Più di 1.500 persone furono uccise, mezzo milione fuggirono, gli edifici furono rasi al suolo e gli osservatori delle Nazioni Unite con 1.300 agenti locali furono evacuati a Darwin in Australia.
Un massacro da non dimenticare
Il corrispondente australiano, Craig Skehan, descrisse così gli eventi sanguinosi dopo che la Missione delle Nazioni Unite in Timor Est (UNAMET) fu ritirata mentre le milizie di Guterres davano la caccia a chiunque fosse legato al movimento pro-indipendenza: «Guterres era il loro capo il quale, dopo aver orchestrato i massacri in Timor Est, aiutò a dare la caccia ai sostenitori dell’indipendenza che erano fuggiti nel Timor Ovest indonesiano».
Gli operatori umanitari locali e stranieri fecero del loro meglio per proteggerli. Ma ci furono dei casi di persone rapite dai campi profughi e uccise. Un rifugiato riferì di due uomini appesi come maiali prima di essere squartati.
La guida spirituale di Timor Est, il vescovo Carlos Belo, assieme a Gusmão e agli ufficiali portoghesi, accusarono l’Indonesia di collusione con i paramilitari nel perpetrare i massacri e nel tentare di occultare la carneficina.
Belo non trattenne le lacrime parlando di almeno 25 persone fatte a pezzi o colpite a morte. In una conferenza stampa a Giakarta, con la diplomatica portoghese Ana Gomes, Gusmão affermò che i suoi sostenitori furono «uccisi come animali» dai paramilitari, appoggiati da soldati indonesiani.
Fuori della casa di padre Rafael dos Santos, parroco di Liquica, 2.000 persone che vi avevano cercato rifugio furono prese di mira dalla cosiddetta milizia di “Ferro bianca e nera”, appoggiata da soldati indonesiani che lanciarono gas lacrimogeni tra la folla. E mentre la gente fuggiva, le milizie di Guterres l’abbatterono colpendo con le spade. Testimoni parlarono di tre camion di cadaveri portati via.
Come la Cambogia sotto i Khmer rossi, Timor Est fu quasi completamente annientata. Quello che successe fu un crimine contro l’umanità e un genocidio ma, diversamente dalla Cambogia, non ci sarà mai giustizia per le vittime.
Il prezzo dell’indipendenza
Coloro che hanno le mani insanguinate sono vissuti nell’impunità. Ciò – secondo Gerry van Klinken dell’università di Amsterdam – comprende anche Subianto, che per due volte ha partecipato, senza successo, alla campagna per la presidenza indonesiana.
È stato anche a capo dell’unità delle forze speciali indonesiane Kopassus e ha condotto operazioni anti-insurrezionali nel Timor Est negli anni del 1980, fu uno dei primi sostenitori di Guterres e venne accusato di rapimenti e di uccisioni di studenti attivisti nel 1998.
Guterres fu dichiarato colpevole per il ruolo avuto nei massacri e condannato a 10 anni di carcere ma non fu mai messo in prigione. Fu invece eletto nel parlamento indonesiano in Timor Est, benché – secondo Skehan – ci fossero «prove evidenti del ruolo esercitato dai militari e da altre autorità in una miriade di gravi violazioni dei diritti umani». Ma il dado ormai era tratto e lo spargimento di sangue che culminò negli eventi tumultuosi del 1999 fu il segno che presto le forze di pace sarebbero arrivate per assicurare la transizione di Timor Est verso l’indipendenza, mentre l’Indonesia formalmente abbandonò la provincia che non era mai stata riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Ciò nonostante, la piccola nazione cattolica da allora non fu mai esente dalla violenza. Nel 2006, le Nazioni Unite inviarono forze di sicurezza per ristabilire l’ordine dopo che 150.000 persone erano fuggite dalle loro case in seguito a conflitti tra fazioni.
Nel 2008, il presidente José Ramos-Horta fu ferito gravemente in un tentativo di assassinio e il primo ministro Gusmão sfuggì a una sparatoria mentre erano stati dispiegati alcuni rinforzi australiani. Le operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite sono rimaste fino alla fine del 2012.
Timor Est è piagato dalla povertà; le sue relazioni estere sono caotiche e gli interessi delle potenze molto più grandi come l’Australia, l’Indonesia e la Cina rappresentano una sfida costante quando si tratta di decidere il futuro del paese. Tuttavia la sua gente ha combattuto, si è sacrificata e alla fine ha ottenuto ciò che maggiormente desiderava, l’indipendenza. Oggi sono pochi a dubitare che valesse la pena di pagare un prezzo così alto per ottenerla.