L’8 novembre i cittadini statunitensi eleggeranno il loro prossimo presidente. Lo scontro tra Hillary Clinton e Donald Trump sottende un conflitto più profondo, che attraversa oggi tutto l’Occidente. Da un lato, troviamo il profilo rassicurante dell’America liberal di sempre. La Clinton ha fatto ottimi studi, ha un cursus honorum di tutto rispetto – incluse posizioni da senatrice e Segretario di stato. Conta su una lunghissima militanza democratica, un riconosciuto impegno per il sociale, oltre a due mandati da First Lady che legano la sua candidatura a una sorta di vena nostalgica per gli anni Novanta. Insomma: una candidata straordinariamente solida e preparata ma anche, in un certo senso, novecentesca. Tant’è vero che la sua campagna, che pure sembra ad oggi destinata al successo, mostra qualche debolezza sulle fasce più giovani della popolazione. Per intenderci, i giovani progressisti affascinati dall’avversario della Clinton alle primarie, il – pur più anziano ma dal profilo più fresco – senatore del Vermont, Bernie Sanders.
Dall’altra parte, abbiamo forse uno degli uomini pubblici meno “presidenziali” d’America: un imprenditore controverso, che sbraita insulti sessisti e razzisti e propone di costruire muri e altre soluzioni impraticabili e dannose, stringendo l’occhio a sistemi semi-autoritari come quello di Putin. Trump è forse il candidato meno preparato della storia recente americana al ruolo di presidente. Eppure, ha un seguito notevole e le sue chances di vincere, per quanto non enormi, rimangono comunque degne di nota.
Abbiamo dunque la politica di Hillary, “preparata” ma un po’ ripetitiva e stantia, anche un po’ plasticosa se vogliamo, che rassicura ma non convince, che propone soluzioni di buon senso e misurate ma non accende i cuori.
Poi abbiamo la politica di Donald, che in fondo la butta (pericolosamente) in caciara, ma che, allo stesso tempo, i cuori sì che li scalda, le masse sì che le esalta, con il suo essere imprevedibile e fuori dagli schemi. Col suo fregarsene delle conseguenze di quello che dice o propone, con suo vivere alla giornata, senza preoccuparsi dei pericoli e delle contraddizioni.
Brexit – Orban – Kaczyński
Anche l’Europa si trova a cavallo tra tendenze Hillary e tendenze Trump. Il voto sul Brexit rappresenta forse l’apoteosi del trumpismo in salsa europea. Un voto di pancia, nato dal terrore della globalizzazione e, diciamolo, pure un po’ razzista. In ogni caso, largamente slegato dalle questioni tecniche presenti sul tavolo e del tutto schiavo dell’emotività. Un’emotività che, peraltro, si protrae anche nel clima politico post-referendario, in cui la premier britannica Theresa May ha di fatto annunciato negoziati con l’UE improntati allo scontro sulle politiche migratorie. Il che, molto probabilmente, indurrà i partner europei a irrigidirsi a loro volta su questioni cruciali per Londra, quali l’accesso al mercato unico, in particolare per i servizi finanziari. Una situazione che, insomma, danneggia tutte le parti in causa.
Il trumpismo all’europea ha poi numerosi adepti tra i governanti dei paesi dell’Europa centro-orientale. Primo tra tutti, l’ungherese Orban il quale, dopo i muri e il filo spinato, ha indetto un referendum contro le quote europee per l’accoglienza dei rifugiati. Un referendum che – fortunatamente – non ha raggiunto il quorum necessario per essere valido. Tuttavia, l’importanza politica del fatto che sia stato anche solo indetto rimane intatta. Per non parlare della stretta sui media: ad esempio, il maggior quotidiano d’opposizione del paese, Nepszabadsag, è stato recentemente prima chiuso e poi rivenduto in circostanze a dir poco sospette.
La Polonia è un altro paese in cui spinte autoritarie si intrecciano con una becera demagogia, tanto da indurre l’UE e altre organizzazioni internazionali a richiamare ufficialmente Varsavia sui pericoli che corre lo stato di diritto. Il recente tentativo di vietare in modo assoluto la pratica dell’aborto in un paese in cui era già alquanto restrittiva è solo l’ultimo esempio delle tendenze populiste del governo. La conseguente protesta delle donne polacche in piazza ha fatto desistere l’esecutivo dall’andare fino in fondo con la proposta, almeno per ora. Ma c’è da aspettarsi altre mosse in questo senso da un governo che ignora regole e richiami internazionali in nome di cosiddetti valori tradizionali e patriottici.
Renzi – Merkel – Hollande (?)
Sull’altro fronte, quello che potremmo semplificare con l’Europa “alla Hillary”, abbiamo oggi la Spagna. Il partito socialista PSOE ha recentemente deciso di sostenere indirettamente – tramite astensione parlamentare – la formazione di un nuovo governo del popolare Rajoy, dopo quasi un anno di stallo istituzionale. La decisione rientra nell’ottica del senso di responsabilità, in cui i principali partiti novecenteschi si accordano per arginare le spinte populiste e garantire la stabilità. Inutile dire che, per quanto forse inevitabile, la mossa dei socialisti di fatto lacera il partito e la sua base elettorale e, un po’ come Hillary, dà un’idea di restaurazione, di “meno peggio”.
Dinnanzi a queste direzioni – quella populista e preoccupante, e quella rassicurante ma comunque “vecchia” e non del tutto convincente – stanno ora tre altri paesi, tre pesi massimi. In primo luogo la Francia, che l’anno prossimo al secondo turno delle presidenziali si troverà, molto probabilmente, a dover scegliere tra Marine Le Pen, e un candidato socialista o gaullista le cui chances di elezione si basano soprattutto sul fatto di non essere Le Pen. Poi la Germania, per cui sia i moderati che i progressisti europei, più o meno apertamente, sperano in una rielezione nell’ottobre 2017 della cancelliera Merkel: unico baluardo di stabilità di fronte agli euroscettici dell’AfD, ultimo argine contro il caos assoluto a livello continentale.
Infine, abbiamo l’Italia. Il referendum di dicembre prima, e le elezioni del 2018 (o del 2017) poi, segneranno probabilmente la resa dei conti tra Renzi e il Movimento Cinque Stelle. Sarà interessante vedere chi avrà la meglio e se, in caso di vittoria, il movimento di Grillo si posizionerà del tutto sul lato populista o se farà uscire un profilo più moderato e non del tutto ostile all’integrazione europea.
L’8 novembre sapremo chi, tra Trump e Clinton, governerà l’America. Comunque vadano le cose, la frattura trasversale nelle opinioni pubbliche occidentali tra una demagogia irresponsabile e pericolosa e un piccolo mondo antico dei partiti tradizionali – ormai condensati in una sorta di partito unico dell’establishment, che rassicura ma fatica a convincere – sembra destinata ad accompagnare l’Occidente negli anni a venire.