Singolare coincidenza al Quirinale. Il pomeriggio del 6 novembre, mentre si contavano le vittime della contesa elettorale sul campo siciliano, il presidente Mattarella inaugurava la mostra dell’Opera dei pupi, vanto della cultura e della tradizione siciliana. Tra i presenti anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Era un impegno già in calendario. Ma molti dei presenti non avevano mente alle gesta di Orlando e Rinaldo e alle grazie della bella Angelica. Semmai, per stare in tema, ad alcuni veniva spontaneo evocare la “rotta di Roncisvalle” e magari il tradimento di Gano di Maganza.
Il pensiero di tutti era infatti fisso sui risultati della consultazione e sugli effetti che avranno sul quadro nazionale. Il primo dei quali è stato il ritiro del “candidato premier” dei 5Stelle, Di Maio, dalla sfida televisiva da lui stesso lanciata a Renzi; e da questi immediatamente accettata. «Dopo il voto siciliano, ha sentenziato Di Maio, il PD è defunto e Renzi non è più il candidato premier».
C’è poco da irridere
In verità c’è poco da irridere. Se le cose dovessero andare a scala nazionale come sono andate in Sicilia, Di Maio arriverebbe secondo, non dopo Renzi (che sarebbe terzo) ma dopo un accolito di Berlusconi. E il capo dello Stato avrebbe un bel da fare per assiemare una maggioranza plausibile, necessaria per conferire l’incarico al personaggio più gradito, o meno sgradito, alle forze politiche presenti in Parlamento.
Conviene perciò procedere con ordine. Innanzitutto per tener presente che i numeri, alla fine, hanno premiato il candidato della destra, Musumeci, appoggiato da una coalizione (FI,FdI, e Lega) che non ha dato di sé un grande spettacolo ma è riuscita comunque a precedere gli altri.
Il movimento di Grillo, che pure si è molto agitato e ha sfiorato il successo, ha dovuto accontentarsi della piazza d’onore. Infine il centrosinistra, presentatosi diviso, anzi dilaniato, ha preso le due posizioni residue, la terza con il candidato del PD, il rettore Fabrizio Micari, e la quarta con Claudio Fava, espressione della scissione del PD.
Oltre la superficie
Il dibattito sulle cause di tale esito è rimasto, per ora, in superficie, sfiorando persino il ridicolo in qualche passaggio. Come l’attribuzione della sconfitta, da parte di alcuni esponenti democratici, alla “mancanza di coraggio” del presidente del Senato, Grasso, reo di non aver accettato l’offerta di una candidatura problematica. O come l’enfasi di Grillo ed altri nel proclamare Di Maio come “vincitore morale” della prova.
Un’analisi un po’ più in approfondita offre ben altri spunti da considerare. Primo, il fallimento della giunta Crocetta cominciando dalla sua vittoria del 2012, resa possibile dalla divisione del centrodestra, e rimasta in balia prima del supporto dei 5Stelle e poi del suo stesso disordine e delle variazioni d’umore dei supporter. Secondo, l’incapacità del PD (siciliano) di tramutare una vittoria venuta per caso in una base adeguata per una riconferma politica. Terzo, la massiccia defezione degli elettori: è andato a votare meno del 50%. Ma perché continuare?
Il mago della “campagna”
La maggior parte dei commentatori sembra comunque concorde nell’individuare una paternità unica per il vincitore Musumeci precisamente nella presenza di Silvio Berlusconi, redivivo, tirato a lucido e imperterrito nell’imbonire il popolo con vere e proprie bombe programmatiche a base di ponti sullo stretto e casinò lussuosi. Con la sola omissione del campo da golf a Lampedusa, promesso un tempo ma ormai fuori stagione.
Non v’è dubbio che Berlusconi sia un mago della campagna elettorale; fosse altrettanto bravo a governare lo avrebbero fatto dittatore perpetuo. E tuttavia anche stavolta ha funzionato, riuscendo a rappresentare come unito un centrodestra che è diviso in almeno tre segmenti e divaricato su scelte essenziali come l’atteggiamento da tenere con l’Europa.
I suoi partners sono stati al giuoco e hanno accreditato l’immagine di un blocco politico laddove altro non c’è che la stentata convivenza di tensioni mal composte.
Ma con altrettanta chiarezza va riconosciuto che le possibilità di successo dell’artificio berlusconiano si sarebbero assai ridotte se anche nel centrosinistra avesse operato simmetricamente un altro “federatore dell’apparenza”, che invece non c’è stato e non s’è fatto neppure vedere.
Autocritica mancata
Il segretario del PD Renzi ha snobbato l’appuntamento siciliano. Su questo non c’è dubbio. Ma non è chiaro perché lo abbia fatto. Perché non considerava importante il fatto “locale” del voto siciliano? O perché presentiva il sentore della sconfitta e preferiva non vedere? In entrambi i casi, o in altri che sarebbe interessante decifrare, si segnala una carenza di ruolo che non potrà sfuggire ad un esame critico all’interno del PD, come ormai molti auspicano.
Ma anche qui non basterà fermarsi al “quia” della condotta del leader a ridosso della prova isolana. C’è un gomitolo da dipanare con un filo che parte dal referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 e si aggroviglia di giorno in giorno dopo quella data.
Il PD ha appreso più volte dal suo segretario che sarebbe stata fatta autocritica sulle azioni e omissioni che hanno accompagnato gli sviluppi politici da allora ad oggi. Ma gli sviluppi sono stati contraddittori e deludenti.
Politica unidimensionale
Sempre più si diffonde la percezione che Matteo Renzi coltivi la pratica di una politica ad una sola dimensione: quella dell’attacco verso tutto e tutti con lo scarico della responsabilità degli insuccessi o sulla inadeguatezza, o malafede, o vocazione al tradimento degli “altri”. E con il risultato di un progressivo arroccamento-isolamento, nello stile di una pattuglia di resistenti piuttosto che di una falange di conquistatori.
Nel PD, a parte la denuncia di quelli che ne sono usciti, comincia ad affiorare il malumore verso la gestione autocratica, autoreferenziale, e comunque …auto del segretario. Dovrebbe essere consentita un’ aperta e franca discussione sui modi più appropriati per superare la crisi con l’indicazione dei programmi e delle persone più adatte.
I tre populismi
L’urgenza è accentuata dall’imminenza delle elezioni politiche e dal profilarsi, dopo le elezioni siciliane, di una diversa conformazione del confronto politico tripolare. Mentre prima si immaginava che i due principali contendenti fossero i 5Stelle e il PD, ora la tendenza va nella direzione di una prima linea di conflitto tra la destra unita e i 5stelle, con il PD in funzione di spettatore.
Può bastare all’ambizione di un partito che vuole governare?
C’è un rischio oggettivo che va fronteggiato. Quello di ridurre il confronto politico italiano a un inseguimento fra tre populismi. Elementi di populismo non sono presenti soltanto nelle formazioni che esplicitamente ne fanno professione: la Lega e i 5Stelle. Anche Berlusconi è della partita con carature originali che risalgono addirittura al secolo scorso. E Renzi non è da meno nell’appropriarsi dei temi del populismo altrui – si pensi ai vitalizi dei parlamentari o ad un certo indurimento sull’immigrazione – per affermare una propria versione del medesimo tema.
Tutto questo, se non arginato, conduce alla rissa di tutti contro tutti. Sicché l’unico argine efficace appare quello di una visione politica che, nei contenuti e nei metodi, sappia affermare una leadership che accompagni la capacità di rispondere alle istanze del bene comune con la saggezza del discernimento che fino ad oggi è mancata. Il da farsi è chiaro, ma chi vi si applicherà?