Come anche voi certamente vedete, i termini del conflitto in corso stanno diventando sempre più espliciti e preoccupanti. Nel contempo, l’opinione pubblica italiana non sembra essere posta nelle condizioni di rendersi conto di quanto sta accadendo.
La crisi dei missili a Cuba e quella ucraina
La situazione, da questo punto di vista, è ben diversa da quella che vivemmo ai tempi della crisi dei missili a Cuba (1962). La ricordo chiaramente, anche se ero solo un ragazzo appena affacciato all’adolescenza. Ponendo un ultimatum ai russi, il presidente Kennedy aveva informato il mondo che, se le navi cariche di missili avessero proseguita la loro rotta verso Cuba, ciò non sarebbe stato accettato e avrebbe scatenato una guerra che gli USA non avevano cercato, ma che nemmeno avrebbero rifiutato.
I giorni in cui scadeva l’ultimatum, tutti, anche noi ragazzi, eravamo incollati alla radio e ci rimanemmo fino al momento in cui si seppe che le navi russe stavano invertendo la rotta.
Per inciso: mi ha colpito la risposta data dalla nipote di Krusciov, che attualmente vive in America e insegna relazioni internazionali a New York, a una domanda sulle differenze tra la situazione di oggi e quella di allora. La signora Krusciova ne vede due, entrambe a sfavore del contesto attuale: «Kennedy e mio nonno si parlavano; Kennedy era meno ideologico di Biden».
Oggi comunque la gente è al bar, a bersi l’aperitivo, spera che finalmente sia finita con le mascherine anti-covid, cerca di programmare le ferie non sempre riuscendovi, si preoccupa per il carovita. Non sembra molto consapevole dei rischi che stiamo correndo, né i leader politici e chi governa fanno molto per accrescere questa consapevolezza. Vedi la vacuità sul punto dell’intervista a Enrico Letta su Il Manifesto del 30 aprile, per citare una delle figure migliori di leader in circolazione.
Proprio in questi giorni, quasi a interrompere questa innocente sonnolenza, sono sopraggiunte potenti sollecitazioni da due grandi vecchi della filosofia europea, Edgar Morin e Jürghen Habermas, di cui ero sinceramente in attesa, che penso si farebbe bene ad ascoltare e di cui qui voglio parlare, introducendole con una premessa su Biden.
La richiesta di Biden
Un fatto ha destato la mia attenzione in questi giorni e immagino anche la vostra. Biden ha chiesto al congresso la disponibilità di 33 miliardi di dollari (di cui 20 per armamenti) per aiutare l’Ucraina e battere Putin. Se si pensa che finora gli americani si stima abbiano speso solo un decimo di quella cifra, si comprende che la richiesta di Biden intende spostare la scala dimensionale del conflitto su un altro piano. Non pare che a Capitol Hill ci siano molte obiezioni a tale richiesta, anche da parte repubblicana, e il presidente spinge perché i fondi siano resi disponibili entro il mese di maggio.
Nel contempo, Biden sta facendo pressione sugli alleati europei perché partecipino all’impegno con risorse proporzionali a integrare lo sforzo americano. Per l’Italia ciò significherebbe circa 3 miliardi, cosa che ovviamente non suscita eccessivi entusiasmi. Sono gli europei, in fondo, a sopportare le conseguenze più pesanti delle sanzioni.
Ma la questione va ben al di là dei costi. Riguarda la disponibilità degli europei a seguire la strada implicita nella richiesta di Biden al congresso e, in un certo senso, la possibilità stessa per essi di seguirla o meno. In altre parole, sono gli europei nelle condizioni di discutere l’impostazione americana ed eventualmente qualcuno di loro intende farlo?
Allo scoppiare del conflitto, Biden aveva detto che l’America avrebbe aiutato l’Ucraina, ma in forme tali (rifiuto della “No fly zone”, no all’invio di soldati) da impedire che scoppiasse una terza guerra mondiale. Formalmente queste condizioni sono rispettate anche oggi, ma se si tiene conto della dimensione verso cui si orienta l’impegno americano è facile capire che gli USA intendono entrare a piedi uniti nel conflitto, modificando sostanzialmente i suoi equilibri a favore dell’Ucraina e degli occidentali. È un caso classico in cui un mutamento quantitativo produce un cambiamento qualitativo.
Di questo c’è ovviamente consapevolezza in quei commentatori russi che si spacciano – chissà poi se lo sono – come consulenti del Cremlino, i quali vedono nella determinazione degli occidentali il tentativo di ridimensionare la statura internazionale della Russia e parlano esplicitamente di un conflitto con la Nato.
Nello stesso tempo, nonostante le difficoltà incontrate, essi appaiono convinti di essere nelle condizioni di vincere e, ancor più, che non possono perdere, costi quello che costi. Se dovessero essere messi nelle condizioni di subire una sconfitta, dunque, ciò sarebbe dovuto all’impegno esorbitante dei paesi Nato e a quel punto la reazione dei russi non potrebbe escludere “nulla”, dato che, con ogni evidenza, la Nato sarebbe diventata una forza belligerante. Del resto, lo stesso Putin ha parlato della possibilità di una risposta “immediata e fulminea” se si determinassero certe condizioni.
L’intervento di Habermas
Il 28 aprile il filosofo ormai novantaduenne Jürghen Habermas ha pubblicato sulla Süddeutsche Zeitung un lungo articolo, molto importante, dal titolo “Guerra e indignazione”. Come molti di noi sanno, Habermas non manca mai di intervenire negli snodi fondamentali della storia europea e spesso le sue parole ci sono parse chiarificatrici. Anche in questa occasione mi pare che esse ci consentano di fare un passo avanti nella comprensione di quanto sta accadendo, e aggiungo un preoccupante passo in avanti.
Per inciso: in modo forse non casuale dell’intervento di Habermas la stampa italiana non ha quasi parlato, salvo due sintesi piuttosto oscure apparse su Domani e su Huffington Post.
La sintesi che propongo si basa su una traduzione dall’inglese che mi ha gentilmente fatto avere Paolo Feltrin.
Il dibattito in Germania
Un paio di osservazioni sul contesto. Probabilmente perché noi amiamo le contrapposizioni semplici e “assolute”, in Italia il dibattito si è concentrato sull’alternativa “inviare/non inviare armi all’Ucraina”. In Germania, invece, la discussione, più seriamente a mio avviso, si è svolta sulle modalità e l’entità dell’assistenza militare all’Ucraina.
Nella Repubblica Federale – sottolinea Habermas – si è sviluppata una critica da parte di «accusatori moralmente indignati», dai quali egli si dice «infastidito», nei confronti di un governo federale che, al contrario, gli appare positivamente «riservato e prudente».
Il Cancelliere federale Olaf Scholz in un intervista a Der Spiegel ha sintetizzato così la linea di prudenza seguita: «Stiamo affrontando le terribili sofferenze che la Russia sta infliggendo all’Ucraina con tutti i mezzi possibili, senza creare un’escalation incontrollabile che causerebbe sofferenze incommensurabili in tutto il continente, forse anche in tutto il mondo»; una dichiarazione, ad avviso di Habermas (e mio), equilibrata, che appariva in sintonia con quelle iniziali di Biden, ma che oggi pare ad alcuni, anche in Germania, troppo moderata e tale da suscitare reazioni non favorevoli del governo ucraino, oltre che di molti liberal d’oltreatlantico.
Queste critiche vengono fatte – osserva Habermas – soprattutto da personalità ex pacifiste (il caso più noto è la ministra degli esteri Annalena Baerbock), che non hanno vissuto l’esperienza della guerra fredda. Esse «sono state strappate dalle loro illusioni pacifiste dalla realtà completamente nuova della guerra» e oggi appaiono profondamente indignate dalle patenti violazioni del diritto internazionale e di quello umanitario operate da Putin.
Si è manifestato perciò in Germania, più fortemente che da noi (qualcosa del genere è, in realtà, presente anche qui), una dialettica accesa tra coloro che «si sono affrettati con enfasi a fare propria la prospettiva di una nazione che lotta per la propria libertà» e coloro che invece sono stati educati dalla guerra fredda a una visione diversa. «I primi possono vedere la guerra solo attraverso la lente della vittoria o della sconfitta, mentre i secondi sanno che una guerra contro una potenza nucleare non può essere vinta nel senso tradizionale della parola».
Posizioni rischiose degli ex pacifisti
Le «richieste esagerate» dei primi appaiono agli occhi di un uomo come Habermas, che ha vissuto di persona la guerra fredda, assai poco orientate da considerazioni di tipo «realistico» e viceversa «traboccanti di [un] idealismo» che appare sempre più stridere con la moderazione del governo tedesco.
Queste persone appaiono sovrastate dal loro senso di indignazione e da ciò indotte a non vedere i pericoli oggi presenti. Si tratta di posizioni, a suo avviso, assai rischiose sia sul piano strategico che su quello culturale.
Habermas appare preoccupato anche su questo secondo piano, perché l’atteggiamento manifestato da queste persone si spinge fino al punto di caldeggiare una «svolta storica nella mentalità tedesca» maturata nel dopoguerra (una visione non a caso sempre osteggiata dall’estrema destra), orientata a porre la parola fine a quella predisposizione «pro-dialogo e focalizzata sul mantenimento della pace» che l’ha caratterizzata.
Qualcosa del genere non è assente nemmeno da noi e lo si vede nel moltiplicarsi di testate giornalistiche sempre più orientate a una cultura di guerra, che usano la giustificazione della critica ai pacifisti “assoluti”, per orientare quello che, con linguaggio significativo, viene chiamato “il fronte interno”.
Una soglia di rischio indeterminata
Ma la questione decisiva riguarda ovviamente la possibilità di un’estensione e di una escalation del conflitto. L’Occidente ha deciso – giustamente secondo Habermas – di sostenere la resistenza ucraina, ma lo ha fatto proponendosi di non intervenire nel conflitto come belligerante. Si tratta di una scelta “moralmente fondata” di limitazione del conflitto, dalla quale però scaturisce inevitabilmente l’esistenza di una soglia di rischio che «preclude un impegno illimitato nell’armamento dell’Ucraina». In altre parole, l’Occidente si trova a dover scegliere tra due mali: il rischio di escalation verso una terza guerra mondiale e la possibilità di una sconfitta dell’Ucraina.
Il primo male. Da un lato, la guerra fredda ha insegnato che «una guerra contro una potenza nucleare non può più essere “vinta” in nessun senso ragionevole». Non si potrà perciò porre fine alla guerra attraverso una piena vittoria sul campo, ma nella migliore delle ipotesi «attraverso un compromesso che permetta a entrambe le parti di salvare la faccia».
Una potenza nucleare come la Russia, che non esclude un utilizzo di quel genere di armi (un’ipotesi accreditata dalla stessa CIA, rileva Habermas), gode dunque di «un vantaggio asimmetrico», perché induce forze come quelle rappresentate dalla Nato a non entrare direttamente nel conflitto.
Qui Habermas si pone la domanda chiave del suo ragionamento: ma allora chi può «decidere quando l’Occidente avrà varcato quella soglia, oltre la quale si potrà considerare che il sostegno militare all’Ucraina rappresenti un ingresso in guerra a tutti gli effetti»? Costui non può essere che Putin, risponde con realismo Habermas.
Ora, l’indeterminatezza di questa (sua) decisione «non consente alcun spazio per speculazioni rischiose». «L’Occidente deve quindi pesare attentamente ogni grado aggiuntivo di sostegno militare per valutare a quali condizioni potrebbe attraversare quel confine indeterminato», che lo porterebbe a un coinvolgimento diretto in guerra.
Il secondo male. Dall’altro lato, non si può pensare che l’Occidente sia continuamente ricattato e da ciò indotto a lasciare l’Ucraina al suo destino. Perché, in quel caso, si dovrebbero accettare ulteriori futuri ricatti riguardanti altri paesi e ciò ci condurrebbe in un «vicolo cieco». In parole povere: se non si fa nulla, si accetta la politica della paura perseguita da Putin e si finisce per lasciarlo libero di fare ciò che vuole. Anche in questo caso si è di fronte a una situazione che appare «essenzialmente imprevedibile», di cui però occorre tener conto nelle considerazioni che precedono le decisioni.
Non oltrepassare un’assistenza militare autolimitata
L’unica possibilità è che noi si dia un’interpretazione «del limite che ci siamo autoimposto» tale da potere «essere condivisa anche da Putin». Chi pensa invece di non tenere in nessun conto queste considerazioni si assume una grande responsabilità. «La retorica bellicista è inconsistente rispetto alle tragiche conseguenze a cui potrebbe condurre», perché non tiene in conto adeguato l’imprevedibilità dell’avversario.
Habermas è, dunque, per una sobria valutazione dell’«assistenza militare autolimitata» da fornire all’Ucraina.
C’è un’ulteriore difficoltà, che dipende dalle interpretazioni date in occidente delle ragioni che hanno portato all’invasione. In esse prevale l’idea di un Putin come eccentrico visionario che sogna la ricostruzione dell’impero. In questo genere di letture non si dovrebbe eccedere – osserva il filosofo –; esse non aiutano a progredire nella ricerca di una soluzione e quanto meno andrebbero affiancate da «una stima razionale degli interessi russi».
Il punto di vista pacifico e orientato a risolvere i conflitti per via diplomatica, che si è imposto nel dopoguerra in Europa, non implica «la pace a qualsiasi prezzo», come vorrebbero i pacifisti radicali. «L’attenzione a porre fine alla distruzione, alla sofferenza umana e alla de-civilizzazione il più rapidamente possibile non è sinonimo della disponibilità a sacrificare un’esistenza politicamente libera sull’altare della mera sopravvivenza», ma nel contesto della guerra moderna non ci si deve far trascinare dall’idealismo dei principi. «Non che il criminale di guerra Putin non meriti di essere portato davanti alla Corte internazionale», ma gli idealisti dovrebbero tener conto del fatto che detto tribunale non è riconosciuto nemmeno dagli USA e dalla Cina, oltre che dalla Russia, che Putin può continuare a minacciare i suoi avversari con la guerra nucleare, che egli detiene ancora un diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, e che dunque «una fine della guerra, o almeno un cessate il fuoco, deve ancora essere negoziato con lui. Non vedo alcuna giustificazione convincente per le richieste di una politica che – nonostante le sofferenze strazianti e sempre più insopportabili delle vittime – metterebbe a rischio la fondata decisione [iniziale] di non partecipare a questa guerra».
Con estrema cautela e prudenza. Una sintesi
L’Occidente ha di fronte un dilemma pericolosissimo, che «richiede estrema cautela e prudenza» (la formula è della Frankfurter Allgemeine Zeitung). L’Ucraina deve essere aiutata a «non perdere la guerra». Ma poiché una potenza nucleare non può essere davvero «vinta» è «con questo Putin che si dovrà alla fine negoziare la pace», una pace che dovrà tener conto anche (non solo, ovviamente) di una comprensione razionale degli interessi strategici russi.
Alle domande “Come è possibile ridimensionare l’oligarchia che comanda in Russia? Come è possibile evitare una escalation catastrofica della guerra?”, purtroppo non è possibile dare risposte entrambe positive, come farebbe piacere a Washington e a tutti coloro che sono giustamente disgustati dalle flagranti violazioni dei diritti fondamentali da parte di Putin e i suoi. E una scelta, a un certo punto, dovrà essere fatta.
L’errore della Nato secondo Sachs
A due giorni di distanza dalla pubblicazione dell’articolo di Habermas, il 1° maggio 2022, Il Corriere pubblica un’intervista a un intellettuale piuttosto noto, l’economista della Columbia Jeoffrey Sachs, esperto di sviluppo economico sostenibile e lotta alla povertà, recentemente nominato dal papa membro della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali.
Si tratta di un intervento molto duro con gli Stati Uniti, cui Sachs assegna gravi responsabilità anche nello scoppio della guerra, andando perfino oltre quelle che tendo a pensare siano state le responsabilità americane effettive. Ma non è questo quello che vorrei richiamare.
L’intervento di Sachs è importante per alcuni elementi che ha in comune con Habermas. Innanzitutto l’idea che non sia possibile battere la Russia: «Il grande errore – scrive Sachs – è credere che la Nato sconfiggerà la Russia: tipica arroganza e miopia americana. Difficile capire cosa significhi “sconfiggere la Russia”, dato che Vladimir Putin controlla migliaia di testate nucleari. (…) Meglio fare la pace che distruggere l’Ucraina in nome della “sconfitta” di Putin».
Secondo Sachs, negli Stati Uniti è prevalsa l’idea che questa sia l’occasione per ridimensionare la Russia e perciò gli americani appaiono oggi riluttanti nei confronti di una pace negoziata. Tant’è vero che essi non hanno mai chiarito quali potrebbero essere i contenuti di un eventuale accordo, né hanno dato segnali di disponibilità quando il presidente Zelensky ha provato a parlare di una possibile neutralità dell’Ucraina. «Per salvare l’Ucraina dobbiamo porre fine alla guerra, e per porre fine alla guerra abbiamo bisogno di un compromesso», conclude Sachs.
Quando poi egli prova a dire qualcosa sui termini di questo compromesso, a me sembra troppo facilone (ritiro della Russia in cambio di un non ingresso dell’Ucraina nella Nato). Ma quello che qui interessa rilevare è che, secondo lui, oggi gli USA stanno commettendo proprio quell’errore che a parere di Habermas dovrebbe essere evitato: ritenere che sia ancora possibile ragionare in termini di vittoria e di sconfitta, sottovalutare la base nucleare della potenza russa, e perciò non tenere conto a sufficienza di quell’«estrema cautela e prudenza» che Habermas ritiene necessaria al fine di evitare l’escalation della guerra.
Morin e il “crollo dell’umanità”
Due giorni dopo, Il 3 maggio, esce un intervento dell’ultracentenario Edgar Morin, più sintetico di quello di Habermas, ma sostanzialmente convergente con esso e, se possibile, ancora più tormentato.
Morin vede chiaramente che, con la fornitura sempre più nutrita di armi occidentali e le rappresaglie sempre più ampie della Russia (…) «il carattere internazionale della guerra sta crescendo». Il conflitto, a suo avviso, va inquadrato «nel peggioramento delle relazioni conflittuali tra gli Stati Uniti e la Russia». Si tratta di «una guerra indiretta», ma siamo ormai «in piena escalation».
Proprio come Habermas, egli osserva che «se una certa soglia non specificata di ostilità o interferenza minacciasse la Russia», Putin ha già detto, e più volte, che vi sarebbe una risposta assai violenta.
Ma – come anche Sachs ritiene – «questa minaccia non è presa sul serio dagli Stati Uniti e dai loro alleati» che gli appaiono vittime delle stesse argomentazioni con cui durante la guerra fredda si riteneva improbabile un conflitto nucleare e cioè il disinteresse razionale a farne uso perché non ci sarebbero né vinti, né vincitori.
Morin obietta esattamente come facevano a suo tempo i pessimisti, e cioè che «l’argomento razionale non tiene conto di una possibile accidentalità e di una possibile irrazionalità». Per cui egli ritiene probabile, se non certo, che la guerra si estenda ad altri territori europei e impieghi armi non convenzionali e «tattiche».
Morin appare preoccupato anche dagli effetti che la guerra rischia di produrre, o sta già producendo, nei nostri paesi in termini di «controlli, sorveglianza, eliminazione di qualsiasi opinione che si discosti dalla linea ufficiale e lo scatenarsi della propaganda per giustificare permanentemente i propri atti e criminalizzare ontologicamente il nemico». E non si può che essere d’accordo con lui.
Il timore di un allargamento del conflitto oramai inarrestabile è molto forte in Morin ed egli si esprime con parole durissime, che probabilmente papa Bergoglio condividerebbe: «Siamo nell’escalation della disumanità e nel crollo dell’umanità, nell’escalation del semplicismo e nel crollo della complessità. Ma soprattutto, l’escalation verso la guerra globale è il crollo dell’umanità nell’abisso». L’unica possibilità è quella di giungere a un accordo i cui termini già oggi sono chiari, ma «la radicalizzazione e l’ampliamento della guerra ne stanno innegabilmente riducendo le possibilità».
E conclude così: viviamo in un mondo «dominato dagli antagonismi tra le superpotenze e consegnato a deliri etnici, nazionalisti, razzisti e religiosi. Per quanto le superpotenze possano essere ripugnanti, la distensione nei loro conflitti è una condizione sine qua non per evitare disastri diffusi. Dobbiamo quindi sforzarci di raggiungere un compromesso. Questo non salverebbe l’umanità, ma ne guadagnerebbe una tregua e, forse, una speranza».
E le opinioni pubbliche europee?
Se tutto questo ha un senso, se i consigli di Habermas, di Morin e di altri sono fondati e le decisioni di Biden non sembrano orientate a tenerne conto e quindi chi governa in America non dà segnali rivelatori di un atteggiamento intenzionato a «pesare attentamente ogni grado aggiuntivo di sostegno militare», ciò significa che la decisone di stabilire quale è la soglia oltrepassata la quale si possa ritenere che gli occidentali sono entrati in guerra con la Russia viene lasciata a Putin senza eccessive preoccupazioni. Ma ciò ci espone sul serio al rischio di una escalation militare di vaste proporzioni, la cui decisione tra l’altro non è controllata a Ovest. Ci sono cioè tutte le condizioni per cui un esito catastrofico sia il risultato di un meccanismo che nessuno controlla più.
Mi pare che preoccupazioni di questo genere siano presenti anche nell’intervista rilasciata il 3 maggio da papa Francesco, nell’idea che si stia andando oltre la guerra mondiale a pezzettini, nei suoi ripetuti e insistenti tentativi di ottenere un incontro con Putin a Mosca, nella percezione che Putin non sia disponibile a fermarsi, nell’accenno a quell’«abbaiare della Nato alla porta della Russia» che potrebbe aver «facilitato» la sua ira e, infine, nell’affermazione «per la pace non c’è abbastanza volontà».
E sorgono domande difficili: quanto e in quali paesi europei la consapevolezza cui Habermas e Morin richiamano è presente?
Se lo è, vi sarà un tentativo concertato, tra alcuni paesi europei almeno, di far riflettere gli alleati americani (per non dire degli scapigliati inglesi…) sui rischi impliciti nella situazione e di esortarli a un maggiore equilibrio tra esigenze di sostegno alla resistenza ucraina e tentativi di trovare un’accettabile e necessaria via di uscita diplomatica?
E infine: decisioni di questa natura, che riguardano il destino di tutti e di ciascuno, possono essere lasciate solo a chi governa, “tecnico” o politico che sia? Non vi è uno spazio qui perché le opinioni pubbliche europee facciano sentire la loro voce come avvenne in occasione dell’invasione dell’Iraq? O andiamo tutti a berci l’aperitivo al bar?
Nella considerazione delle azioni da intraprendere in risposta al confitto bellico in Ucraina che sostanzialmente si confrontano con il concetto di etica, nella mia opinione si dovrebbero prendere in esame le seguenti riflessioni:
Ogni considerazione sull’etica non puo’ essere definita, per non cadere in contraddizioni, se non all’interno dell’etica stessa. In altre parole, non ci sono scelte al di furi di essa che poi divengano soggetto della sua analisi attraverso le quale si possano fare delle scelte etiche. Per fare un esempio, non ci si puo’ moltiplicare a dismisura, costringendoci a fare poi delle scelte non etched, e poi cercare una soluzione etica in situazioni generate da principi e comportamenti non etici. L’etica nasce da un rispetto infinito e profondo attaverso il quale le conseguenze di certe scelte e del comportamento conseguenziale divengono chiare gia’ nel momento in cui queste vengono contemplate. L’etica e’ viva in questo tipo di mondo. Questo pefche il vero valore della vita risiede nelld relazioni con il tutto. Per queste ragioni il nostro fare, se tale fare vogliamo che sia etico, deve essere regulatory dai gradi di liberta’ che l’etica regola fin dal concepimento del nostfo fare. Il dilemma per sua natura, si manifesta quando abbiamo prnsato, ed agito seguendo tale pensiero, seguendo principi non etici e quando vogliamo ricondurli verso una realta’ etica. In questo scenario, non ci possiamo asprttare che cio’ che abbiamo provocato sia ricondotto automaticamente in una realta’ governance da principi etici. La cofrezione ddlell’errore sottosta’ ad un processo che richiede tempo e passi intermedi che noi chiamiamo compromessi. Questi vengono regolati dal concetto di utilitarismo. In questo processo il fine e’ quello d’interrompere le azioni non etiche. Ancora non si puo’ applicare l’etica per le ragioni gia’ espresse. Come non si possono addurre concetti di liberta’ assoluta perche questultima, nel mondo che abbiamo creato ha solo un valore storico e non ideale. L’etica, nella nostra realta, puo rappresentare solo un obbiettivo ultimo. I suoi concetti e principi sono solo una luce che dovrebbe chiarire il nostro cammino nel processo di risanamento del nostro pensare egocentrico. Se concepiremo le mediazioni che dovrebbero risolvere il conflitto in Ucraina guardandole da questo punto di vista, forse I compromessi saranno visti non come una sconfitta, ma come una vittoria contro una cultura che da molto tempo ha mostrato I suoi limiti. Alla fine bisognera’ decidere di non rimanere sospesi tra il leone ed il filosofo che rsiede in noi. Il leone mangia l’antilope senza crearsi problemi morali. La mangia perche ha fame e questo a lui basta per giustificare il suo atto. La natua e’ puramente utilitaristica e per questo coerente. Nella nostra mente, concetti culturali si nono sovrapposti agli istinti. Quindi abbiamo cominciato a vivere una realta’ ambigua che si sta’ trasformando in schizzofrenia. La scelta ultima degli uomini credo che dovra essere proprio questa, se non vorranno estinguersi nel passare da conflitto a conflitto; da emergenza ad emergenza. Spero che si decida per il filosofo ed il bambino che risiede in noi.
Commento con una sintesi di un articolo di Domenico Quirico:
Quali sono le condizioni della vittoria?
Per Kiev si fissa in due punti: «La disintegrazione della Russia o la rimozione di Putin con una sopravvivenza relativa della Russia». Tutto ciò che è inferiore alla distruzione militare della Russia e alla fine del suo regime tirannico equivale a una bruciante sconfitta.
Ciò coincide esattamente con quella che è diventata la vittoria minima per americani ed inglesi.
Ma le caratteristiche della vittoria che serve agli americani significa anche che sono cambiate, a favore di Putin, le condizioni di una vittoria russa.
A Putin, per cogliere la vittoria. gli basta resistere all’assalto restando vivo e al potere.
Per gli europei, ora, il problema è convincere Kiev, e gli americani, ad accettare la sconfitta.
Domenico Quirico, La Stampa, 5 maggio 2022