Diceva Palmiro Togliatti che, se si sbaglia l’analisi, in politica si perde tutto. Non era da meno – per restare nell’orbita della prima repubblica – quell’Aldo Moro che, nei momenti più ardui trasformava in ostinazione la sua capacità di far sintesi tra diversi, per tenere insieme la compagine del suo partito.
Il risultato finale della consultazione amministrativa conclusasi con i ballottaggi fornisce all’analisi il supporto matematico dei dati numerici. Sui quali, e sulle tendenze che rivelano, non è consentito discutere.
Ma sarebbe sbagliato fermarsi ai numeri senza sforzarsi di cogliere il significato delle correnti, palesi o sotterranee, che danno vita alla congiuntura politica.
I numeri e il resto
I numeri stessi, del resto, rivelano la direzione dei flussi e quindi delle tendenze che prevalgono in mezzo al popolo sovrano. E i numeri dicono che, rispetto allo status precedente e anche rispetto a molte aspettative, si è realizzata una rilevante ripresa del centrodestra.
Se questa sia da attribuirsi ad una ritrovata trazione berlusconiana, definita moderata, oppure alla profondità dello scavo delle… ruspe sovraniste di Salvini, è tutto da definire. Ma la tendenza è innegabile ed è visivamente rappresentata dal numero delle bandierine piantate sui centri espugnati, a partire dagli antichi bastioni della sinistra, ricapitolati da Genova.
Gli altri due raggruppamenti che articolano il tripolarismo italiano hanno, con altrettanta evidenza, di che lamentarsi. I 5Stelle di Grillo, perché sostanzialmente eliminati dai ballottaggi dei capoluoghi e quindi esclusi dal centro della contesa; il centrosinistra, perché decisamente travolto dal centrodestra nella maggior parte delle sfide a due consumatesi sui territori.
Pietosi lenitivi
Dopodiché suonano come pietosi lenitivi gli argomenti addotti per confezionare rappresentazioni meno indigeribili: vale per Grillo che, rifacendosi ai tempi andati, evoca l’avanzata “inesorabile” dei suoi, e vale per Matteo Renzi, che si aggrappa alla differenza tra consultazione amministrativa e consultazione politica.
Eppure, entrambi avrebbero di che riflettere. Il primo sul trattamento riservato al precursore del grillismo municipale, il Pizzarotti da Parma, che si è preso una solitaria rivincita dopo essere stato emarginato, e sulla decapitazione della lista genovese varata dal popolo dei blog.
Per l’altro – Renzi – il tema non svolto è stato quello della mancata correzione di rotta e di atteggiamento dopo la sconfitta subita nel referendum costituzionale del dicembre 2016 e, per converso, sull’insistenza con cui si è riproposto in veste di leader come se nulla fosse avvenuto, inclusa la scissione del Pd.
Voglia di coalizioni?
Il semplice richiamo di questi elementi impedisce di considerare come stabile, se non come definitivo, il quadro emerso dalla prova amministrativa, a causa anche della sua limitazione territoriale e del contenzioso locale che l’ha caratterizzata.
Anche se le cronache del giorno sembrano appagarsi della registrazione dell’esito delle urne, occorre uno sforzo di approfondimento e di orientamento che possa giovare alla preparazione della consultazione politica ormai, salvo dissesti, fissata per la prossima primavera.
È rimasta in sospeso la legge elettorale, per la quale, soprattutto dalla destra sovranista, si auspicherebbe un reimpianto di tipo maggioritario che consenta il ricorso alle coalizioni. Analoga esigenza sembra manifestarsi nella sinistra. In entrambi i casi, la coalizione appare come lo strumento adatto a stare insieme per vincere le elezioni (o per non essere falciati dagli sbarramenti) salvo poi a litigare una volta conseguito l’ingresso in Parlamento.
È inevitabile che il discorso sia ripreso e che una pressione nel senso indicato si manifesti, soprattutto da parte dei gruppi minori (anche quelli di dimensioni medie), che difficilmente potrebbero superare la diga del 5%, sulla quale sembrerebbe manifestarsi una certa convergenza degli addetti alle mediazioni.
Bisogni-interessi-speranze
A questo punto, però, anche i più duri di cervice si saranno persuasi che non basta la legge elettorale per vincere le elezioni, nel senso che ci vogliono i voti. E i voti si conquistano se si riesce ad essere percepiti dagli elettori come in grado di rispondere a quell’insieme di bisogni-interessi-speranze che formano la sostanza della domanda politica e quindi determinano le condizioni della risposta.
A che punto sono i lavori su questo versante? A parte i grillini che operano nel riserbo (autoritario) del loro sistema informatico, molti cantieri sono aperti sugli altri comparti del sistema.
Nel centrodestra, per la verità, la fantasia berlusconiana non si stanca di escogitare imprese “vincenti”: dalla riscoperta dell’animalismo al mandato esplorativo conferito (e quasi subito obliterato) all’amico Stefano Parisi per un’esplorazione finalizzata al reclutamento di nuove risorse umane. Ma presto ha ripreso vigore, nell’area di… competenza, la dialettica tra estremisti (Salvini-Meloni) e moderati (Berlusconi e i suoi vicini) con in mezzo un mediatore, l’emergente Toti, ora console vittorioso a Genova, che non sembra disdegnare una leadership leghista, tenuto conto dell’età e degli acciacchi giudiziari del patron storico.
Sbancamento e incollaggio
Nel centrosinistra il quadro è aggravato dalle complicazioni psicologiche legate al carattere del leader e alla sua attitudine a parcere subiectis et debellare superbos. E, siccome i superbi non scarseggiano, ecco che il risultato finisce con l’essere quello dell’isolamento del leader e, con esso, del partito.
D’altra parte, anche nelle amministrative testé celebrate, si è dovuto constatare che l’esito del centrosinistra sarebbe stato peggiore se fosse mancato l’apporto di almeno una parte degli scissionisti. A maggior ragione ciò dovrebbe valere a livello nazionale, dove la primazia, non dico la maggioranza, è legata al soffio di un problematico “percento”.
Anche in queste contrade sono in corso lavori di sbancamento e costruzione (Pisapia) e di incollaggio (Prodi), ma ogni giorno che passa cresce il volume dell’insuperabilità dell’ostacolo percepito. Che, per paradossale che possa apparire, si chiama Matteo Renzi, l’uomo della rottamazione, dell’estremizzazione solitaria, della vocazione maggioritaria estrema e del rifiuto di fare autocritica (cosa diversa dal riconoscere la sconfitta) dopo il fallimento del referendum sulle regole istituzionali.
Il rischio dello stallo
Il rischio di entrare in stallo è evidente e, con esso, l’incombere di una nuova definitiva sconfitta. Difficile immaginare una qualche ricomposizione che non sia posticcia. Più ragionevole pensare che il centrosinistra possa andare al voto diviso in due tronconi, quello renziano e l’altro, con l’idea di ritrovarsi a scrutinio ultimato per formare una maggioranza. Ma il rischio è che i tronconi possano essere non due ma tre, a causa dell’irriducibilità di una parte della sinistra; e quindi con l’esito dell’esclusione di tutti dalla possibilità di contare.
Una sfida sul programma
C’è o, se si vuole, ci sarebbe un’eventualità di superare queste contraddizioni che appaiono insanabili anche per l’accumulo di attriti, incomprensioni, sgarbi e ritorsioni registrati nel tempo e nella memoria comune?
Tutti dicono che la soluzione andrebbe cercata sul terreno programmatico. Ed è giusto. Ma il discorso andrebbe integrato con una provocazione che investe proprio l’identificazione dei punti programmatici e il metodo per effettuarla.
Ri-costituire la politica
L’idea è (o sarebbe) quella di una “ri-costituente” della politica che chiami a confronto tutte le energie necessarie che siano disposte ad uscire dai rispettivi involucri e ad impegnarsi su un programma concordato da realizzare in un tempo stabilito.
Quanto al metodo, si potrebbe ricorrere ad una convocazione vera e propria, in cui dare fondo a tutte le risorse della fantasia e del realismo, oppure confezionare un “quizzone” dal cui esito ricavare le indicazioni del lavoro da svolgere e delle relative priorità.
Quale che possa essere l’esito della prova, si sarebbe perimetrato un terreno comune sul quale concentrare il confronto delle parti senza inutili sconfinamenti. E si sarebbero individuati i temi su cui obbligatoriamente tutti dovrebbero pronunciarsi, senza omissioni di comodo. Le leadership, naturalmente, dovrebbero essere funzionali all’attuazione del programma adottato.
Chi può promuovere un’impresa simile? Un grande giornale, un’agenzia imparziale, un centro di sondaggi, un’associazione autonoma, un gruppo autorevole di cittadini. O lo stesso parlamento in una sessione speciale e inedita?
Ma, forse, è più realistico domandare se tra i protagonisti in campo ci sia qualcuno disposto ad affrontare una simile prova.