Il “sommerso della repubblica”: così anni or sono venne intitolato un saggio sui lati oscuri delle stragi degli anni di piombo e sulle relative connessioni politiche, vere o presunte. Se ne occupò una Commissione bicamerale che però non giunse quasi mai a conclusioni condivise.
Non è il caso di riaprire quella storia. Vale invece la pena di intrattenersi su un’altra faccia del “sommerso”, quella di un fenomeno economico del quale, al contrario delle tragedie politiche, l’analisi scientifica conosce la genesi, la struttura, le manifestazioni. Ed è bene farlo mentre è ancora fresco l’inchiostro dei titoli dedicati alla questione dopo che l’Istat ha resi pubblici gli ultimi dati (2014) in materia.
Qualche numero aiuta a comprendere l’importanza della questione. Comunica l’Istat che nel 2014 l’economia sommersa e quella illegale sono salite a 211 miliardi di euro pari al 13% del PIL, con l’incremento di un punto rispetto alla precedente rilevazione.
Un fenomeno conosciuto
Più in dettaglio, si apprende che il 46,9% del totale deriva dall’evasione fiscale, il 36,5% dall’impiego di lavoro irregolare; che sfuggono al fisco attività per un valore di 194,4 miliardi, in prevalenza servizi, commercio, trasporti, alloggio e ristorazione; e che da contrabbando di tabacco, prostituzione e traffico di stupefacenti deriva un volume di 17 miliardi. Da notare che prima del 2014 queste ultime voci non erano inserite nel calcolo, mentre ora sono accorpate sotto il capitolo della cosiddetta “economia non osservata”, quella di cui è provata l’esistenza ma che il fisco non riesce a raggiungere. Ma si potrebbe anche intendere come frutto della diffusa … non osservanza delle regole.
Qualche altro numero per arricchire il panorama: sono 3,6 milioni i lavoratori irregolari, di cui 2,6 dipendenti, con presenze rilevanti nel campo dei servizi alle persone, specie nel lavoro domestico (23%), e poi nell’agricoltura e nella pesca (16,3%).
La dottrina del “cespuglio”
La situazione era nota. Basta consultare i precedenti per rendersi conto che le voci non cambiano; cambiano solo – e in aumento – le cifre. Ed è proprio la progressiva continuità della tendenza in aumento a denotare che non si tratta di fenomeni congiunturali e passeggeri, ma di stratificazioni solide. Attinenti per un verso alla struttura del nostro sistema economico e per un altro dalla inadeguatezza dell’intervento politico, il tutto impastato col perdurare di un deplorevole costume fiscale dei cittadini. Sono cambiati i consoli e le proposte di rimedio, ma non c’è stata una qualche riduzione del fenomeno; anzi…
Che la fisionomia del meccanismo economico italiano fosse esposta al rischio del disordine e dell’ingovernabilità era evidente fin dagli anni ’80 del secolo scorso, quando Giuseppe De Rita (Censis) aveva esposto la dottrina del “cespuglio”.
Fu quella la metafora che usò per segnalare i limiti e i rischi di un capitalismo caratterizzato dal “familismo” e da una «dislocazione selvaggia, particolaristica, furbastra e conflittuale dei poteri e delle decisioni, in una sorta di filosofia collettiva dell’ognuno per sé e Dio per gli altri».
La previsione era che di tale assetto «qualcosa sopravvivrà, qualcosa andrà potato o abbattuto, qualcosa sopravanzerà o si consoliderà». Sarebbe interessante indagare su quel che in proposito è accaduto negli anni.
La politica: tra rampogne e complicità
Quanto alla politica, si può dire che, in mancanza di progetti di sviluppo a carattere nazionale (abbandonati in nome della restaurazione mercantile che ha segnato gli ultimi dieci lustri) c’è stata solo una gestione dell’esistente, con oscillazioni limitate tra un laissez faire controllato e un interventismo irresoluto.
Di più: talora si è assunta la dottrina del cespuglio come un incentivo per la diffusione di microstrutture con la parola d’ordine “piccolo è bello”, omettendo di completarla con il necessario “se cresce”. Dove la crescita significa anche maturità della coscienza civile in tutte le sue dimensioni.
Il risvolto fiscale di tale irresolutezza è drammatico: si è passati dalle severe rampogne sul disvalore dell’evasione con la correlativa proclamazione del dovere della solidarietà inderogabile (art. 2 della Costituzione) alla gratuita (e complice) concessione agli evasori dell’attenuante della legittima difesa contro la rapina dello stato-Dracula. Come dire dalle grandi parate dimostrative alla ricerca degli scontrini mancanti alle sanatorie sui rientri di capitali dall’estero ed ai condoni per non importa quali infrazioni.
Le abitudini dei cittadini, poi, non sono state neppure sfiorate dal flusso principale dei richiami etico-politici. Dalla scuola, ai centri culturali, al giornalismo, agli stessi nuclei religiosi non c’è stata – o se c’è stata non s’è vista e/sentita – una consapevolezza diffusa della elementare verità per cui, se tutti pagano le tasse, tutti ne pagheranno meno.
Viceversa l’opinione pubblica è stata eccitata nel reclamare la pienezza dei diritti senza considerare che, anche nella Costituzione, c’è sempre un rapporto biunivoco tra l’esercizio di un diritto e l’adempimento di un dovere. La stessa denuncia delle malefatte della così detta “casta” – critica obbligata in presenza di abusi ed aberrazioni – si è sviluppata in termini generali senza distinguere tra chi, pur guadagnando molto, paga le tasse e chi no.
Potrebbe risultare persuasivo un argomento caro alla tradizione liberale, quello che recita: “nessuna tassa senza rappresentanza”. Che pensare dell’idea di togliere la rappresentanza a chi non paga le tasse?
Un improbo “che fare”
Le riflessioni che precedono hanno uno scopo esplicito: aiutare a prendere atto della gravità del fenomeno del sommerso e delle potenzialità connesse al suo abbattimento.
Di qui la sollecitazione alle le forze politiche perché escano dall’ambiguità che ha segnato il loro comportamento. Occorre avviare nella società e in ogni suo centro vitale un’operazione di orientamento che contrasti il facile schema per cui, in ogni settore, si è portati a far coincidere il bene comune con l’appagamento delle aspettative individuali. Si potrebbe cominciare a parlarne già in questa finora monotona fase di avvicinamento al referendum sulla riforma della Costituzione; e poi naturalmente continuare.
Sapendo che è un’impresa improba ma che, se si rinuncia a tentarla, c’è solo una certezza: che sarà questo “sommerso” a sommergere la repubblica.
Ma la prostituzione in Italia è già tassata; questo ai sensi dell’articolo 36 comma 34bis della Legge 248/2006, come chiarificato dalla Cassazione con le Sentenze n. 10578/2011, 18030/2013, 7206/2016 e 15596/2016. Il Codice relativo è 96.09.09 “Altre attività di servizio per la persona non classificabili altrove”.
Cosa aspettano i sex workers ad aprire la partita IVA e pagare le tasse in merito?